Sufi e jihad armata
Il mondo sufi é un mondo piuttosto variegato, lo dimostra il fatto che al suo interno esistono diverse confraternite che si sono sviluppate in aree molto distanti tra loro e nell’arco di svariati secoli. Ciò che è certo è che i sufi compaiono a partire dal VIII secolo. Dobbiamo tenere presente che nella storia dell’islam i sufi hanno rappresentato – e tuttora rappresentano – un tassello importante all’interno dell’ortodossia. Essere sufi non implica necessariamente essere mal visti o addirittura essere considerati eretici ed estranei all’islam. I dervisci, ad esempio, sono tutt’altro che “musulmani diversi” dato che fanno parte a pieno titolo dell’ala sunnita dell’islam. Non vi è autentico sufismo senza un’autentica adesione all’islam e quindi al Corano e alla pratica del Profeta (Sunna): la Legge religiosa ne è l’aspetto esteriore (al-qishr, la “scorza”), il sufismo quello interiore (al-lubb, il “nocciolo”).
Alessandro Bausani spiega:
“Teniamo presente innanzitutto che misticismo è un contatto personale e diretto fra uomo e Dio: ora l’Islam sunnita, proprio perché così minuziosamente regola il foro esterno dell’uomo, lascia la massima libertà, e dogmatica e sperimentale, al suo foro interno, o, meglio, non se ne interessa. Non esistendo inoltre né sacerdoti né sacramenti, una volta che il musulmano pio ha eseguito regolarmente i suoi obblighi legali è perfettamente a posto con la legge e può anche parlare direttamente con Dio come vuole.”
“Eppure la mistica non solo allignò vigorosamente nella ortodossia sunnita, ma anzi è soprattutto nel sunnismo che essa trovò i più alti, i più profondi e tal- volta i più estremi rappresentanti”
(Alessandro Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano, 1979, cap. III, pp. 72-99)
Dal X al XIV secolo i sufi diventano un vero e proprio movimento popolare a cui compete una dinamica sociale considerevolmente più forte rispetto alle scuole di legge degli ulama.
Il movimento sufi divenne la forma più popolare e maggiormente diffusa di islam.
Al-Zawahiri (il capo dei terroristi di Al Qaida), tanto per citare un musulmano integralista dei nostri giorni, é un sufi.
Lo stesso amministratore di un noto forum on-line islamico che manifesta pubblicamente le proprie convinzioni radicali, come si può intuire dal suo nickname è un sufi:
In tempi moderni un esempio tra i più eclatanti è costituito dai Murabitun inglesi di Ian Dallas, un misterioso ex attore di tatro e cinema convertitosi in Marocco.
Attualmente, di maggior peso sembra la confraternina Naqshbandyya dello Shayk Nazim, legata al nazionalismo religioso neottomano di Erdogan.
Se i siti web europei sono pieni di inviti all’amore e alla tolleranza e i sufi, nelle loro attività interne, non mancano grandi manifestazioni ultraimperialiste e militariste. Nel seguente video si può osservare la massiccia organizzazione propagandistica e revanchista della setta che riscuote molto successo tra i tolleranti e ingenui occidentali:
Nell’islam molte sono le sovrastrutture depistanti utilizzate per penetrare nella società occidentale, oggi assai indebolita per motivi che non indagheremo in questo articolo. Come dicevamo, tra le varie modalità operative di questa pervasiva infiltrazione un ruolo privilegiato è affidato alle confraternite sufi (Tasawwuf), specializzate nel creare un bacino di reclutamento di occidentali sprovveduti, convinti di incontrare un islam “pacifista” e “moderato”.
Le confraternite sufi hanno elaborato un vero e proprio doppio binario, con un volto pubblico accogliente e transigente teso a occultare dottrine puramente jihadiste.
Il ramo islamico dei sufi ha sempre goduto di una visione eccezionalmente positiva in occidente. Considerati come mistici pacifici che intendono la jihad esclusivamente come una ricerca spirituale, quindi nulla di violento o spiacevole, i sufi hanno attirato a se convertiti occidentali di ogni sorta, dai new age della Marin County in California, agli intellettuali, artisti e semplici cittadini.
Eppure, al contrario di quello che è stato insegnato agli occidentali attraverso i mezzi di diffusione del politicamente corretto nei confronti dell’islam, dalla nascita delle prime confraternite sufi sino ad oggi il jihadismo è sempre stato una realtà caratterizzante del sufismo. E non poteva essere altrimenti: se la mistica classica islamica è riuscita ad imporsi nell’islam è proprio perché c’è profonda consonanza con lo spirito guerrafondaio del Corano.
A sfatare il mito della figura del sufi come mistico pacifista ci pensa anche Fatema Meternissi:
I problemi del mondo non sono insolubili; la loro soluzione sta nell’abilità dei membri del gruppo di andare d’accordo ed essere uniti. Ciò conferisce all’islam il suo carattere pragmatico e rende difficile sganciarlo dalla politica. Non incoraggia le autorità religiose a immergersi nella meditazione, come fanno i fachiri induisti. Anche le persone in cerca di spiritualità, come i Sufi, devono tenere un piede ben saldo nella realtà se vogliono essere credibili e se il loro obiettivo principale è risolvere i problemi della città, anche se questi problemi sono estremamente complicati. (Fatema Meternissi, Islam e democrazia, pag 122)
Non è infatti corretto considerare il misticismo sufi come la versione pacifica dell’islam, in contrapposizione ai violenti integralisti Wahabiti. Non bisogna fare l’errore di scambiare i sufi per una sorta di hippy. Nella storia sono state numerose le jihad aggressive organizzate, capeggiate e combattute dai sufi. Dagli eremi-fortezze chiamati rabāt i sufi hanno svolto un ruolo importantissimo durante l’espansione armata dell’islam, sia a livello sociale che a livello militare. Essi furono coinvolti in innumerevoli imprese militari e servirono come strumento di diffusione delle rigorose norme sunnite.
Il sufismo é sempre stato collegato alla jihad sin dall’undicesimo secolo.
In conformità alla relazione tra sufismo e ortodossia islamica, i sufi hanno sostenuto in maniera fervente l’istituzione della dhimmitutine, completa di tutte le sue regole umilianti per in non-musulmani. Il sufismo non è mai stato in contrapposizione con la sharia: per i sufi la legge islamica era ed è un mezzo essenziale per raggiungere la verità (haqia). É anche importante evidenziare l’infondatezza della teoria dottrinale della fantomatica “grande jihad spirituale” (jihad interiore), associata per lo più ai sufi. Persino Reuven Firestone ha riconosciuto la dubbia natura dell’hadith che presenta questa potenziale interpretazione della jihad: non ne é stata data la fonte, né si riesce a trovare nella “collezione canonica” degli hadith. [1] Non a caso i musulmani più influenti del XX secolo, come ad esempio il leader sciita Ayatollah Ruollah Khomeini (morte 1989), o il famoso ideologo sunnita Sayyid Qutb (morte 1966), hanno sempre sostenuto l’infondatezza dell’idea dei “sufi pacifisti” [2].
Al pari di ‘Abdallah ibn al-Mubarak , la grande maggioranza degli asceti protosufi e dei primi mistici sufi par tecipò al jihad combattente . Ibn al-Mubarak ha mostrato come ciò sia avvenuto in due opere giunte sino a noi: Kitab al-jihad e Kitab al-zuhd wa-l-raqa’iq (la sua raccolta di tradizioni e ammonimenti). Questi libri sono un po’ le due facce dell’asceta musulmano, non necessariamente uomo di pace. L’asceta ideale pratica entrambi i tipi di jihad – interiore ed esteriore – o non nega né l’uno né l’altro.
Dall’epoca di al-Muhasibi, e anche in precedenza, asceti e combattenti abitavano nelle stesse zone. Furono numerosi i primi asceti-combattenti a tenersi lontani dai centri dell’impero musulmano, preferendo le zone periferiche dove c’erano nemici da combattere, quali la Cilicia dall’VIII all’XI secolo , dove i bizantini rappresentavano una minaccia, oppure Qazwin, nei pressi del confine con quello che era, allora, il selvaggio e non islamizzato Tabaristan. (David Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri, pag. 62)
Di seguito andiamo a vedere cosa hanno sostenuto teologi e giuristi appartenenti a quest’ala dell’islam sull’istituzione della jihad armata e la sua istituzione accessoria, la dhimmitudine. Per semplificare sia il lavoro che la lettura dell’articolo ne abbiamo preso in esame solo alcuni tra i più autorevoli, servendoci del materiale reso disponibile su questo articolo in inglese.
Iniziamo con una figura di prominenza nella storia intellettuale islamica, il sufi Al-Ghazali (1058-1111). Egli nacque a Tus in Khorasan, vicino alla moderna Meshed in Iran, e divenne uno dei più importanti teologi, giuristi e mistici. William Montgomery Watt, considerato uno dei migliori conoscitori non musulmani dell’islam, rimarcò l’ortodossia islamica di Al-Ghazali. Watt conferma che Al-Ghazali fu:
…acclamato sia ad est che ad ovest come il più grande musulmano dopo Maometto, e non é in nessun modo non meritevole di tale valore… Portò l’ortodossia e il misticismo a stretto contatto… i teologi divennero più disponibili ad accettare i mistici come gente rispettabile, mentre i mistici erano più attenti a non oltrepassare i confini dell’ortodossia. [3]
Riguardo la jihad armata e al trattamento dopo la conquista della gente non musulmana Al-Ghazali scrisse:
Bisogna andare in guerra (jihad di tipo razzia o incursione) almeno una volta all’anno. Si può usare una catapulta contro di loro (i non-musulmani) quando sono in una fortezza, anche se tra di loro ci sono donne e bambini. Si può dar loro fuoco o affogarli. Se una persona tra gli Ahl al-Kitab (le genti del libro, ebrei e cristiani) viene fatta schiava, il suo matrimonio viene [automaticamente] cancellato. Si possono tagliare i loro alberi. Si possono distruggere i loro libri inutili. I jihadisti possono prendere come bottino qualsiasi cosa desiderino. Possono rubare tanto cibo quanto ne abbiano bisogno.
Il dhimmi non può nominare Allah o il Suo Apostolo. Ebrei, cristiani e majiani devono pagare la jizya [tassa-tributo specifico per i non-musulmani]. Quando dona la jizya, il dhimmi deve mostrarsi sottomesso mentre l’ufficiale lo afferra per la barba e lo colpisce sulla mandibola.
A loro non é permesso ostentare il loro vino e le loro campane da chiesa. Le loro case non possono essere più alte di quelle dei musulmani, non importa quanto basse queste siano. Il dhimmi non può cavalcare un cavallo o un mulo eleganti; può cavalcare un asino solo se la sella é di legno. Non può camminare sul lato buono della strada. I dhimmi devono indossare una toppa identificativa sui loro vestiti, anche le donne, e anche nei bagni pubblici non é loro concesso parlare. [4]
Mettiamo ora a confonto gli scritti di Al-Ghazali con le seguenti dichiarazioni di due prominenti giuristi venuti in seguito, Ibn Qudama (1147-1223), e Ibn Tamiyya (m1263-1328).
Iniziamo con Ibn Qudama:
La guerra lecita (jihad) è un dovere sociale obbligatorio (fard kifaya): quando un gruppo di musulmani ne garantisce il corretto svolgimento, gli altri ne sono esentati.
La jihad diventa un dovere personale vincolante (fard ‘ayn) per tutti i musulmani abilitati o il cui paese è stato invaso dal nemico. È obbligatorio solo per gli uomini che hanno raggiunto la pubertà, sono in grado di ragionare e di combattere. La jihad è il meglio di ció che si possa fare per avere una ricompensa superiore. Abu Huraira riporta che “Il Profeta, quando gli venne chiesto quale fosse la migliore opera fra tutte rispose: credere in Dio [e il Suo Profeta]’ – E poi? Qualcuno gli domandò. – La guerra per conto di Dio e un pacifico pellegrinaggio”. Abu Sa’id riporta inoltre che il Profeta, interrogato su chi fosse il migliore tra la gente, rispose, “Colui che combatte per la causa di Dio, di persona e con le proprie risorse”… È consentito sorprendere gli infedeli nel buio della notte, bombardarli con il mangonel (una specie di marchingegno che lancia pietre) e attaccarli senza dichiarare battaglia (du’a’). Il Profeta attaccò i Banu Mustaliq senza che questi se lo aspettassero, mentre i loro animali si stavano ancora dissetando; uccise gli uomini che avevano combattuto contro di lui e fece prigionieri i bambini. E’ vietato uccidere i bambini, i malati di mente, le donne, i preti, i vecchi deboli, gli infermi, i ciechi, quelli deboli di volontà, a meno che abbiano preso parte alla battaglia.
Il capo di Stato decide del destino di coloro che vengono fatti prigionieri; li può condannare a morte, ridurli in schiavitù, liberarli in cambio di un riscatto o garantire loro la libertà come donazione. Deve scegliere la soluzione che sia il più possibile compatibile con il bene comune dei musulmani.
La jizya può essere chiesta solo alle Genti del Libro (Ahl-al-Kitab) e agli zoroastriani (Magus), che si impegnano quindi a pagare e a sottomettersi alle leggi della comunità. Per Genti del Libro si intendono gli ebrei e chi segue la Torah, così come i cristiani e coloro che seguono il Vangelo. Quando la Gente del Libro chiede di pagare la jizya e di essere sottomessa alle leggi della comunità bisogna accontentare la loro richiesta, ed è proibito combatterli. La jizya viene raccolta all’inizio di ogni anno. È fissata a 48 dirhem per un ricco, 24 dirhem per un uomo che abbia mezzi moderati e 12 dirhem per chi ha una modesta proprietà. Non può essere chiesta ai bambini non ancora in pubertà, alle donne, i vecchi bisognosi, i malati, i ciechi, gli schiavi, e neppure ai poveri che non la possono pagare. Un infedele soggetto alla jizya che si converte all’islam diventa libero da quest’obbligo. Quando un infedele muore, i suoi eredi sono responsabili della jizya. [5]
Ibn Tamiyya:
Dato che la campagna militare è essenzialmente la jihad e dato che l’obbiettivo è di fare in modo che la religione e la parola di Dio prevalgano, in accordo quindi con tutti i musulmani, coloro che sono d’intralcio devono essere combattuti. Relativamente a quelli che che non possono offrire resistenza o non sono in grado di combattere, come le donne, i bambini, i monaci, i vecchi, i ciechi, gli infermi e affini, non devono essere uccisi eccetto che la loro battaglia sia quella delle parole (ossia propaganda) e azioni di tipo spionistico o di sostegno ai combattenti.
Per quanto le Genti del Libro e gli zoroastriani, questi vanno combattuti fino al momento in cui diventano musulmani oppure pagano il tributo (jizya) di loro volontà e sono stati umiliati. [6]
Comparando quanto sopra riportato, si può notare che rispetto ai giuristi Hanbali Ibn Qudama e Ibn Tamiyya, il sufi Al-Ghazali è egualmente bellicoso dal punto di vista della jihad, e più discriminatorio e oppressivo nelle sue guide linea sul trattamento dei dhimmi (non-musulmani sottomessi). Inoltre, la visione di Al-Ghazali riguardo ai dhimmi, che vista la sua autorevolezza diventò la visione dominante dei teologi e giuristi musulmani durante il califfato Abbaside-Baghdadiano, sfociò in atti di vera e propria persecuzione, come trascritto, per esempio, in questo resoconto del 1100 ad opera di Obadyah il Proselita, nella Baghdad di allora:
…il califfo di Baghdad, al-Muqtadi [1075-1094], aveva dato potere al suo visir, Abu Shuja… che impose che ogni maschio ebreo dovesse indossare una pezza identificativa gialla sul proprio copricapo. Questo era un segno distintivo sul capo, mentre l’altro si trovava sul collo – un pezzo di piombo del peso di un dinaro d’argento appeso intorno al collo di ogni ebreo con incisa la parola dhimmi a significare che tale ebreo dovesse pagare la tassa. Gli ebrei dovevano anche indossare una sorta di cintura intorno alla vita. Abu Shuja impose due ulteriori segni d’identificazione alle donne ebree. Dovevano indossare una scarpa nera ed una rossa, e ognuna di loro doveva avere una piccola campanella d’ottone al collo e sulla scarpa, che tintinnando avrebbe favorito la separazione tra le donne ebraiche e le donne musulmane. Incaricó crudeli uomini musulmani di spiare le donne ebree, per opprimerle attraverso ogni sorta di insulto, umiliazione e dispetto. La popolazione Musulmana era solita prendersi gioco degli ebrei, e le bande e i loro figli picchiavano gli Ebrei ovunque sulle strade di Baghdad… Quando un ebreo moriva senza aver pagato la jizya del tutto ed era in debito di una somma più o meno significativa, i musulmani non permettevano che la sepoltura avesse luogo fino al pagamento completo della jizya. Se il deceduto non aveva lasciato nulla di valore, i musulmani pretendevano che gli altri ebrei compensassero coi loro denari il debito di tassa jizya che il deceduto aveva contratto; altrimenti minacciavano di mettere il corpo al rogo. [7]
Infine, nello spirito degli insegnamenti di Al-Ghazali sulla jihad di guerra, le campagne jihadiste dei Selgiuchidi e degli Ottomani che avevano imperversato nella vicina Asia Minore dall’undicesimo sino al quindicesimo secolo, avevano al vertice i movimenti chiamati Ghazi (dal termine ghazwa, o razzia), “Guerrieri della fede”, uniti sotto la bandiera dell’islam per combattere gli infedeli e ottenere il proprio bottino. Incitati da “pacifici” teologi musulmani – in particolare i dervisci sufi – questi ghazi erano all’avanguardia sia nelle conquiste Selgiuchide che in quelle Ottomane. A.E. Vacalopoulos evidenzia il ruolo di questi dervisci durante le campagne Ottomane:
… i dervisci fanatici e altri leader musulmani… costantemente utilizzati per espandere l’islam. Avevano fatto così già dal primo inizio dello Stato Ottomano e avevano giocato un ruolo importante nel consolidamento e nell’estensione dell’islam. Questi dervisci erano particolarmente attivi nelle regioni di frontiera disabitate dell’est. Si stabilirono lì con le loro famiglie, attraendo altri che vi si insediarono diventando perció i fondatori di villaggi interamente nuovi, i cui abitanti mostravano le stesse particolarità in quanto a fervore religioso. Da posti come questi, i dervisci o i loro agenti sarebbero poi risultati come coloro che avrebbero preso parte alle nuove imprese militari per l’espansione dello Stato islamico. In cambio, lo stato garantì loro terra e privilegi alla generosa condizione che la terra venisse coltivata e i collegamenti messi in sicurezza. [8]
Ideologia sufi nell’India premoderna
Durante il tardo Sultanato di Delhi e il periodo iniziale dell’Impero Moghul, il sufismo era parecchio più intollerante rispetto all’Induismo, come documentato da K. S. Lal, un preminente studioso di islam. Lal si focalizzò sugli scritti del sufi Abdul Quddus Gangoh (1456-1537):
I Mushaikh musulmani [leader spirituali sufi] erano scrupolosi sulle conversioni quanto gli Ulema e, contrariamente all’opinione comune, invece di essere gentili con gli induisti come dovrebbero esserlo i santi, essi speravano che gli induisti diventassero cittadini di seconda classe, nel caso non si fossero convertiti. L’esempio dello Shaikh Abdul Quddus Gangoh merita di essere citato, perché egli apparteneva al Chistia Silsila, considerato il gruppo sufi più tollerante. Egli scrisse delle lettere a Sultan Sikandar Lodi, Babur, e Humayun con l’intento di rinvigorire la Shari’a e relegare gli induisti a pagatori della tassa territoriale e della jizya. Egli scrisse a Babur, ‘Dai supporto e protezione ai teologi e ai mistici…essi dovrebbero essere mantenuti e sovvenzionati dallo stato… Nessun ufficio o impiego dovrebbe essere offerto, nel Diwan dell’islam, ai non musulmani… Oltretutto, in conformità ai principi della Shari’a, essi dovrebbero essere oggetto di ogni tipo di offese e umiliazioni. Essi dovrebbero essere costretti a pagare la jizya…Dovrebbe essere impedito loro di indossare gli abiti dei mussulmani, dovrebbero essere obbligati a nascondere il loro Kufr [infedeltà] e a non praticare le cerimonie del loro Kufr apertamente e liberamente… Non dovrebbe essere permesso loro di considerare sé stessi alla pari dei musulmani.’ [9]
Lo Shaykh (sceicco) Ahmad Sirhindi (1564-1624) fu un illustre mistico, legato a molte confraternite religiosi sufi (tra le quali la Naqshbandi), che contribuì molto alla rinascita dell’islam ortodosso, in seguito agli eterodossi esperimenti del regno di Akbar (1556-1605). Shirindi pubblicò un considerevole numero di trattati e lettere che promuovevano il suo punto di vista e condannavano l’ecumenismo promulgato da Akbar verso gli induisti. A differenza della sua intollerante visione degli induisti, l’attacco ad hominem di Sirhindi nei confronti degli ebrei riflette un Judenhass (odio per gli ebrei) di natura teologica, dato che è improbabile che avesse avuto un contatto diretto con la piccolissima comunità ebraica dell’India premoderna.
La Sharia deve essere alimentata dalla spada…. Il Kufr [la miscredenza] e l’islam sono contrari l’uno all’altro. Il progresso dell’uno è possibile solo a spese dell’altro e la coesistenza di queste due fedi contrapposte è impensabile…. Colui che rispetta i kuffar (plurale di kaffir-miscredente, infedele), disonora i musulmani. Rispettarli non significa solamente onorarli e assegnare loro un posto d’onore in qualsiasi assemblea, ma implica anche stare in loro compagnia e mostrare considerazione nei loro confronti. Dovrebbero essere tenuti a debita distanza come i cani…. Se qualche interesse mondano fosse impossibile da portare avanti senza di loro, in questo caso si potrebbe stabilire un minimo contatto, ma senza prendere confidenza. Il sentimento islamico più nobile suggerisce che è meglio rinunciare a qualsiasi interesse mondano e non stabilire relazioni con i kuffar…. Il vero intendo dell’imposizione della jizya su di loro [in non musulmani] è quello di umiliarli e portarli, attraverso la paura del pagamento della jizya, a non potersi vestire bene e avere una vita dignitosa . Essi dovrebbero costantemente vivere nel terrore e tremare. Con l’intento di disprezzarli e ribadire l’onore e il potere dell’islam… Il sacrificio delle mucche in India è la più nobile tra le pratiche islamiche. Probabilmente i kuffar potrebbero essere d’accordo sul pagamento della jizya, ma non accetterebbero mai il sacrificio di una mucca… L’esecuzione del maledetto kaffir di Gobindwal [un Sikh che guidò una rivolta contro l’opprimente legge musulmana nella sua comunità] è un risultato importante ed è la causa della sconfitta dei maledetti induisti…Qualunque possa essere la causa dell’esecuzione, disonorare i kuffar è l’atto di grazia più alto per i musulmani. Prima dell’esecuzione dei kuffar ho avuto una visione in cui l’Imperatore ha distrutto la corona sulla testa dello Shirk. In verità egli era il capo dei Mushik e la guida dei kuffar… Quando un ebreo viene ucciso, è un beneficio per l’islam. [10]
Yohanan Friedman offre un contributo riassuntivo dell’atteggiamento di Sirhindi nei confronti degli induisti:
Sirhindi continua con il suo rifiuto del credo e delle pratiche dell’Induismo con una, ugualmente convincente, dichiarazione riguardo alla condizione degli induisti nell’Impero Moghul. L’onore dell’islam richiede l’umiliazione degli infedeli e della loro falsa religione. Per raggiungere questo obiettivo, la jizya dovrebbe essere loro imposta senza pietà e essi dovrebbero essere trattati come dei cani. Le mucche dovrebbero essere sgozzate per dimostrare la supremazia dell’islam. Lo svolgimento di questo rito è, in India, il simbolo più importante della dominazione islamica. Una persona dovrebbe astenersi dal fare affari con gli infedeli, almeno che non sia assolutamente necessario, e anche in questo caso dovrebbe trattarli con disprezzo. L’islam e la miscredenza sono due opposti inconciliabili. L’uno deve fiorire attraverso il degrado dell’altro. Il profondo astio di Shirindi per i non-musulmani può essere illustrato al meglio con la sua esultanza per l’esecuzione, nel 1606, di Arjun, il quinto guru dei Sikh.[11]
Il sufi Shah Aladihlawi Wali-Allah (1703-1762) fu un teologo, pioniere della traduzione persiana del Corano, tradizionalista e attivista politico. Le lettere al sultano Shah Wali-Allah (Durrani), come quelle rivolte agli importanti leader musulmani locali per spingerli a cooperare con i Durrani e intraprendere una jihad contro i Maratha (induisti) e gli Jat, rivelano i suoi costanti sforzi per stabilire una dinastia (straniera, se necessario) più militante, senza l’India. Perciò, lo Shah Wali-Allah non fu solo d’ispirazione per le invasioni Durrani del 1756-57 e quelle del 1760-61, egli fu anche responsabile per aver aiutato ad organizzare una confederazione dei poteri dei musulmani contro i Maratha (induisti) nel nord dell’India.
E’ diventato chiaro per me, come il regno dei cieli abbia predestinato i kuffar ad essere ridotti ad uno stato di umiliazione ed essere trattati con profondo disprezzo. Quell’insieme di maestà e ardito coraggio dovrebbe [Nizam al-Maluk] prepararlo alla battaglia e dirigere la sua attenzione al compito di conquistare il mondo. Cosicché la fede diventi più affermata e il suo stesso potere venga rafforzato; una piccola fatica verrebbe ampiamente ricompensata. Egli non compierebbe sforzi, essi [i Maratha] verrebbero inevitabilmente indeboliti e annichiliti dalle calamità celesti…Giacché ho imparato ciò in maniera inequivocabile [dal Divino], scrivo spontaneamente per portare alla tua attenzione la grande opportunità postati davanti. Dovresti, prima di tutto, non essere negligente nel combattere la jihad…Oh Regnanti! Mala a’la vi stimola a trarre le vostre spade a e non rimetterle nel fodero prima che Allah abbia separato i Musulmani dai politeisti e dai ribelli kuffar e prima che i peccatori siano stati lasciati del tutto deboli e senza aiuto.’
Nel suo testamento a Omar [il successivo Califfo], Abu Bakr lo informò che se avesse temuto Allah, il mondo intero avrebbe avuto paura di lui [Omar]. Dichiarò che il mondo assomigliava ad un’ombra. Se un uomo le fosse corso dietro, essa lo avrebbe inseguito e, se egli avesse preso il volo dall’ombra, essa lo avrebbe comunque seguito. Allah ti ha scelto come protettore dei Sunniti e non esiste nessun’altro che possa assolvere a questo compito, ed è cruciale che tu consideri sempre il tuo ruolo come obbligatorio. Impugnando la spada per rendere supremo l’islam e subordinando a questa causa i tuoi bisogni personali, trarrai vasti benefici.
Noi ti supplichiamo [Durrani, un capo musulmano], nel nome del Profeta, di combattere una jihad contro gli infedeli di questa regione. Ciò ti conferirebbe grandi ricompense dinanzi ad Allah l’Altissimo e il tuo nome verrebbe incluso nella lista di coloro che hanno combattuto una jihad per amore di Allah. Per quanto concerne i guadagni del mondo terreno, vantaggi incalcolabili finirebbero nelle mani dei ghazi islamici e i Musulmani verrebbero liberati dai loro nodi. L’invasione di Nadir Shah, che ha distrutto i Musulmani, ha lasciato i Mathara e gli Jat sicuri e prosperi. Come risultato, gli infedeli hanno recuperato le forze e i capi dei Musulmani di Delhi sono stati ridotti a meri burattini. [12]
La dettagliata analisi di S.A.A. Rizvi sulla dottrina della jihad dello Shah Wali-Allah si conclude così:
Secondo lo Shah Wali-Allah, il simbolo della perfetta realizzazione della Sharia era il compimento della jihad. Comparò i doveri dei musulmani in relazione a quelli di uno schiavo prediletto che somministrava una medicina amara agli altri schiavi della casa. Se ciò fosse stato fatto con la forza sarebbe stato del tutto legittimo, ma se qualcuno avesse mischiato la forza con la gentilezza, sarebbe stato ancora meglio. In ogni modo, c’erano delle persone, disse lo Shah, che seguivano i loro istinti primordiali a causa della loro religione ancestrale, ignorando i consigli e gli ordini del profeta Maometto. Se qualcuno avesse cercato di spiegare la religione a persone come queste, avrebbe fatto un danno. L’uso della forza, disse lo scià, era la scelta migliore – l’islam avrebbe dovuto essere spinto loro in gola, come una medicina amara viene spinta nella gola di un bambino. Questo, comunque, sarebbe stato possibile solo se i leader delle comunità di non-musulmani che non avevano accettato l’islam, fossero stati uccisi; la forza della comunità fosse stata ridotta, le loro proprietà fossero state confiscate e si fosse creata una situazione in cui i loro seguaci e discendenti fossero stati portati ad accettare l’islam di buon grado. Lo Shah dichiarò che il dominio universale da parte dell’islam non sarebbe stato possibile senza la jihad. [13]
Sufismo sciita e dhimmitudine nell’Iran contemporaneo
Sultanhussein Tabandeh, un moderno leader sufi sciita, nel 1966 scrisse un intero trattato che prendeva in esame vari elementi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dichiarando che sono incompatibili con la legge islamica: una ‘prospettiva islamica’ sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. [14] Secondo Eliz Sanasarian, un professore dell’Università della California del Sud che ha analizzato i problemi delle minoranze religiose nella Repubblica islamica, il trattato di Tabandeh è diventato ‘il fulcro ideologico su cui il governo iraniano ha fondato la sua politica nei confronti dei non-musulmani.’ Le sue opinioni sui non-musulmani, afferma Sanasarian, sono state prese quasi alla lettera nella Repubblica islamica dell’Iran.’ [15]
Tabandeh inizia il suo scritto definendo lo Shah Ismail I (1502-1524), il repressivo e intollerante fondatore della dinastia dei Safavidi, [16] come il paladino ‘degli oppressi’. Per poi riaffermare la tradizionale inferiorità dei non-musulmani in confronto ai musulmani, come impresso nella Sharia.
Perciò se un musulmano commette adulterio la sua pena prevede 100 frustate, la rasatura del cranio e un anno di esilio. Ma se un uomo non è musulmano e commette adulterio con una donna musulmana la sua pena è l’esecuzione… In maniera analoga, se un musulmano uccide deliberatamente un altro musulmano, si applica la legge del taglione ed egli viene condannato a morte per mano di un parente prossimo [della vittima]. Ma se un non-musulmano viene ucciso da un musulmano, la pena di morte non è valida. Il musulmano deve pagare una multa ed essere punito con la frusta. Dato che l’islam concepisce i non musulmani come esseri di livello inferiore per fede e convinzioni, se un musulmano uccide un non-musulmano…allora la sua punizione non può essere la morte, dato che la sua fede e convinzioni sono superiori rispetto a colui che è stato ucciso… Inoltre, le pene previste per un non-musulmano colpevole di fornicazione con una donna musulmana sono maggiori perché, oltre al crimine contro la moralità, gli obblighi sociali e religiosi, egli ha commesso sacrilegio perché ha disonorato una musulmana, dunque ha offeso i musulmani in generale, quindi deve essere ucciso.
L’islam e le sue genti devono essere al di sopra degli infedeli, e non devono permettere mai ai non-musulmani di prendere potere su di essi. Visto che il matrimonio tra una donna musulmana e un marito infedele (in conformità con il versetto che recita: ‘gli uomini sono preposti alle donne’) significa la sua sottomissione ad un infedele, questo fatto rende il matrimonio nullo, perché non segue le condizioni necessarie per rendere valido un contratto. (Corano 60:10, ‘Se le riconoscete credenti, non rimandatele ai miscredenti, esse non sono lecite per loro né essi sono loro leciti’). [17]
Jihad sufi nel premoderno e moderno Caucaso del Nord
Il Daghestan fu inizialmente islamizzato a causa degli arabi musulmani ommayidi e abassidi, durante il VII e l’VIII secolo. Diversi secoli dopo, un’ondata di invasioni delle tribù turco-mongole dell’est, e la loro imposizione dell’islam, accrebbe la popolazione musulmana nel nord del Caucaso. [18] Nella metà del XVI secolo, i cosacchi russi iniziarono ad insediarsi nelle terre scarsamente popolate della Cecenia. Questi coloni russi divennero sudditi di Ivan il Terribile, con l’intento di ottenere protezione dalle razzie perpetuate dai tartari e dai turchi. [19] Nel 1781 l’Impero russo avanzò attivamente all’interno del Caucaso del nord e della Transcaucasia, accelerando la jihad anti-russa dello Sheikh Mansur Ushurma, un sufi Naqshbandi. [20] Seguì la distruzione, da lui promossa, di un’intera brigata russa, durante la battaglia di Sunzha nel 1785.
…gli abitanti delle montagne, chiamati alla guerra santa contro gli invasori infedeli, per qualche anno unificarono praticamente l’intero Caucaso del Nord, dal territorio ceceno ad ovest, alle steppe di Kumyk ad est. Il suo appello – almeno quello che conosciamo di esso – assomiglia molto ai vecchi appelli alla jihad da parte dei murshid [maestri, capi della fratellanza sufi] Naqshbandi… [21]
A partire da questa jihad spartiacque del XVIII secolo, fino ai giorni d’oggi, il tariqat [fratellanza] dei Naqshbandi ha giocato un ruolo cruciale per quanto riguarda la difesa e l’espansione del dominio musulmano, di fronte allo sconfinamento sia dello Zar, che della Russia sovietica. Trasformando ‘i montanari semi-pagani in musulmani ortodossi’, i Naqshbandiyya portarono l’islam nelle regioni animiste dell’alta Cecenia e del Caucaso dell’ovest.[22] Inoltre, i seguaci dalla ferrea disciplina dei Naqshbandi portarono avanti una prolungata resistenza contro le conquiste della Russia zarista, cosicché Bennigsen e Wimbush affermano in maniera plausibile:
Si può dire che la quasi cinquantenaria [XIX secolo] guerra del Caucaso ha offerto un importante contributo alla disfatta morale e materiale dell’Impero zarista e ha accelerato il crollo della monarchia dei Romanov. [23]
Durante i tragici anni della Rivoluzione del 1917-1921, che furono particolarmente sanguinolenti nel nordest del Caucaso, le fratellanze sufi, in particolar modo i Naqshbandi, ebbero nuovamente un ruolo centrale. I loro risultati finali nella resistenza contro i comunisti furono coerenti con i precetti della jihad, intesa come ideologia sia difensiva che espansionistica:
…per ristabilire una monarchia teocratica governata dalla Sharia, vanno espulsi i russi ed eliminati ‘cattivi musulmani’ che si sono piegati ai governanti infedeli. Il seguente fu uno dei discorsi dello Sheikh Naqshbandi , di nome Uzun Hajii, uno dei leader della fratellanza: ‘Se Dio vuole, possiamo costruire una monarchia shariatica, giacché in una terra musulmano non può esserci repubblica. Se accettassimo una repubblica, dovremmo dunque rinunciare al Califfato, il ché ci porterebbe a rinunciare al Profeta e, da ultimo, a Dio stesso’. E qualcos’altro a riguardo: ‘Sto tessendo una corda per impiccare gli ingegneri, gli studenti e, in generale tutti quelli che scrivono da sinistra verso destra.’ [24]
Malgrado le forti persecuzioni dell’era sovietica, nel febbraio 1944 gli specialisti della propaganda antislamica ammisero di aver fallito nel tentativo di contenere l’espansione delle organizzazioni sufi, che emersero anche dopo la Seconda Guerra Mondiale:
…più potenti e influenti che prima della Guerra, probabilmente anche più del 1917. V.G Pivovarov, un eccellente sociologo sovietico, scrisse nel 1975: ‘Più della metà dei credenti musulmani della Repubblica Autonoma di Cecenia ed Inguscezia, sono dei murid [seguaci] della fratellanza’ [25]
Attualmente, il leader sufi Naqshbandi, Shamil Basayev, che vede sé stesso plasmato sui modelli leggendari dei jihadisti del Caucaso del nord del XIX secolo, come il suo omonimo Imam Shamil, gioca un ruolo chiave nell’attuale jihad contro il governo post-sovietico. Basayev, deve essere evidenziato, non sembra solo avere sogni di Califfato, ma ha anche organizzato il brutale massacro di Beslan, Ossezia del nord, dove il 3 settembre 2004 sono morti 331 bambini.
1. Reuven Firestone. jihad—The Origin of Holy War in islam, Oxford University Press, 1999, pp. 139—140, note 19.
2. Ayatollah Ruhollah Khomeini. “islam is not a Religion of Pacifists (1942)”, “Speech at Feyziyeh Theological School (August 24, 1979)”, and “On the Nature of the islamic State (September 8, 1979)”, English translations in Barry Rubin and Judith Colp Rubin, Anti—American Terrorism and the Middle East, Oxford, Oxford University Press, 2002, pp. 29, 32—36.; Sayyid Qutb. Chapter 4, “Jihaad in the cause of God”, in Milestones, Cedar Rapids, Iowa, The Mother Mosque Foundation, 1993, pp. 53—76.
3. W.M. Watt. [Translator]. The Faith and Practice of Al—Ghazali, Oxford, England, 1953, p. 13.
4. Al—Ghazali (d. 1111). Kitab al—Wagiz fi fiqh madhab al—imam al—Safi’i, Beirut, 1979, pp. 186, 190—91; 199—200; 202—203. [English translation by Dr. Michael Schub.]
5. Ibn Qudama. Le precis de droit d’Ibn Qudama, jurisconsulte musulman d’ecole hanbalite né a Jerusalem en 541/1146, mort à Damas en 620/1223, (Livre XX— ‘La Guerre Legale’), translated from Arabic into French by Henri Laoust, Beyrouth (Beirut), 1950, pp.273—276, 281. [‘Legal War’, chapter 20, The Summary of Law by Ibn Qudama]. English translation by Michael J. Miller.
6. Ibn Taymiyya, from al—Siyasa al—shariyya, translated by Rudolph Peters in jihad in classical and modern islam, Princeton, NJ, Markus Wiener, 1996, pp. 44—54.
7. A. Scheiber. ‘The Origins of Obadyah, the Norman Proselyte’ Journal of Jewish Studies (Oxford), Vol. 5, 1954, p. 37. Obadyah the Proselyte was born in Oppido (Lucano, southern Italy). He became a priest, and later converted to Judaism around 1102 A.D., living in Constantinople, Baghdad, Aleppo, and Egypt.
9. K.S. Lal. The Legacy of Muslim Rule in India, New Delhi, Aditya Prakashan, 1992, p. 237
10.Saiyid Athar Abbas Rizvi, Muslim revivalist movements in northern India in the sixteenth and seventeenth centuries. Agra, Lucknow: Agra University, Balkrishna Book Co, 1965, pp. 247—50; Yohanan Friedmann, Shaykh Ahmad Sirhindi: an outline of his thought and a study of his image in the eyes of posterity. Montreal, McGill University, Institute of islamic Studies, 1971, p.74.
[11] Friedmann. Shaykh Ahmad Sirhindi: an outline of his thought.
[12] Saiyid Athar Abbas Rizvi. Shah Wali—Allah and his times. Canberra, Australia, Ma’rifat Publishing House, 1980, pp. 294—296, 299, 301, 305.
[13] Rizvi. Shah Wali—Allah and his times, pp. 285—286.
[14] Sultanhussein Tabandeh. A Muslim Commentary on the Universal Declaration of Human Rights, English translation by F. J. Goulding, London, 1970.
[15] Eliz Sanasarian Religious Minorities in Iran, Cambridge University Press, 2000, pp. 25, 173, footnote
[16] Tome Pires, Suma Oriental (1512—1515) Haklyut Society Publications, Vol. I (London, 1944), p. 27.; Raphael du Mans, Estat de la Perse, 1660, ed. Schefer (Paris, 1890), pp. 193—194; cited in, W.J. Fischel, ‘The Jews in Medieval Iran from the 16th to the 18th centuries: Political, Economic, and Communal aspects’, Irano—Judaica, Jerusalem, 1982, p. 266; C.N. Seddon (translator), A Chronicle of the Early Safawis [Being the Ahsanu’t—Tawarikh of Hasan—i—Rumlu], 1934, Vol. II, p. xiv.
[17] Tabandeh, A Muslim Commentary on the Universal Declaration of Human Rights, pp. 4, 17—19,37
[18] Atlas of islamic history, compiled by Harry W. Hazard; maps executed by H. Lester Cooke, Jr., and J. McA. Smiley. Princeton, N.J., Princeton University Press, 1951, pp. 6,8,10,18,22,24.
[19] Y.V. Nikolaev. The Chechen Tragedy. Mineola, NY, Nova Science Publishers, 1996, p. 7.
[20] Nikolaev. The Chechen Tragedy, p. 7; A. Bennigsen, S.E. Wimbush. Mystics and Commisars. sufism in the Soviet Union. Berkeley, CA: University of California Press, 1985, p. 18.
[21] Bennigsen and Wimbush. Mystics and Commisars, p. 18.
[22] Bennigsen and Wimbush. Mystics and Commisars, p. 19.
[23] Bennigsen and Wimbush. Mystics and Commisars, p.19.
[24] Bennigsen and Wimbush. Mystics and Commisars, p.24.
[25] Bennigsen and Wimbush. Mystics and Commisars, p. 31.
Ah già chi si è ribellato al colonialismo è un jihadista
..curatevi….
Da quello che scrive si capisce che non ha letto minimamente l’articolo che è andato a commentare.