Origine del jihād: dogma e strategia
L’islam, religione rivelata in lingua araba da un profeta arabo, nacque in Arabia nel VII secolo e si sviluppò in seno a una popolazione le cui tradizioni e usanze erano influenzate da un particolare ambiente geografico. Per questo, pur mutuando dalle religioni bibliche il nucleo essenziale del loro insegnamento etico, esso incorporò elementi culturali locali, propri dei costumi delle tribù nomadi o parzialmente sedentarie che popolavano il Hijaz. Queste tribù, che costituivano il nucleo militante della comunità islamica, attraverso la guerra le assicurarono il costante sviluppo delle sue risorse e dei suoi adepti. Fu così che nel giro di un secolo gli arabi islamizzati, originari delle regioni più aride del pianeta, ne conquistarono gli imperi più potenti, e al tempo stesso assoggettarono i popoli che avevano dato vita alle civiltà più prestigiose.
Il jihād (la guerra santa contro i non musulmani) nasceva dall’incontro tra le consuetudini del grande nomadismo guerriero e le condizioni di vita di Maometto a Yathrib (più tardi Medina), dov’era emigrato nel 622 sfuggendo agli idolatri di La Mecca. Priva di mezzi di sostentamento, la piccola comunità musulmana in esilio viveva a carico dei neoconvertiti di Medina, gli ansar ovvero gli ausiliari. Ma poiché tale situazione non poteva protrarsi, il Profeta organizzò alcune spedizioni volte a intercettare le carovane che commerciavano con La Mecca. Interprete della volontà di Allāh, Maometto riuniva in sé i poteri politici del capo militare, la leadership religiosa e le funzioni di un giudice: «Chiunque obbedisce al Messaggero, obbedisce a Dio» (Corano IV,80).
Fu così che una serie di rivelazioni divine, elaborate ad hoc per tali spedizioni, vennero a legittimare i diritti dei musulmani sui beni e la vita dei loro nemici pagani, e furono creati versetti coranici finalizzati a santificare di volta in volta il condizionamento psicologico dei combattenti, la logistica e le modalità delle battaglie, la spartizione del bottino e la sorte dei vinti. A poco a poco fu definita la natura delle relazioni da adottare nei confronti dei non musulmani nel corso delle imboscate, delle battaglie, degli stratagemmi e delle tregue, ossia dell’intera gamma di strategie in cui si articolava la guerra santa necessaria ad assicurare l’espansione dell’islam.
La politica adottata da Maometto nei confronti degli ebrei di Medina, nonché degli ebrei e dei cristiani delle oasi del Hijāz, determinò quella dei suoi successori nei confronti degli abitanti indigeni ebrei e cristiani dei paesi conquistati. Gli ebrei di Medina furono o depredati e cacciati dalla città (sorte toccata ai Banū Quynuqā e ai Banū Nadīr, 624-625), o massacrati, a eccezione dei convertiti all’islam, delle donne e dei bambini, che furono ridotti in schiavitù (come accadde ai Banū Qurayza, 627). E poiché tutte queste decisioni furono giustificate mediante rivelazioni di Allah contenute nel Corano, esse assunsero valore normativo e divennero una componente obbligata della strategia del jihād. I beni degli ebrei di Medina andarono a costituire un bottino che fu spartito tra i combattenti musulmani, in base al criterio per cui un quinto di ogni preda era riservato al Profeta. Tuttavia, nel caso dei Banū Nadīr Maometto conservò la totalità del bottino poiché questo, essendo stato confiscato senza colpo ferire, secondo alcuni versetti coranici (LIX,6-8) spettava integralmente al Profeta, incaricato di gestirlo a beneficio della comunità islamica, la umma. Fu questa l’origine del fay’, ossia del principio ideologico, gravido di conseguenze per il futuro, in base al quale il patrimonio collettivo della umma era costituito dai beni sottratti ai non musulmani.
Fu nel trattato concluso tra Maometto e gli ebrei che coltivavano l’oasi di Khaybar che i giureconsulti musulmani delle epoche successive individuarono l’origine dello statuto dei popoli tributari, tra gli ebrei e i cristiani – designati collettivamente come Gente del Libro (la Bibbia) – e gli zoroastriani persiani.
Secondo questo trattato, Maometto aveva confermato agli ebrei di Khaybar il possesso delle loro terre, la cui proprietà passava invece ai musulmani a titolo di bottino (fay‘). Gli ebrei conservavano la loro religione e i loro beni in cambio della consegna di metà dei loro raccolti ai musulmani. Tuttavia tale statuto non era definitivo, in quanto Maometto si riservava il diritto di abrogarlo quando lo avesse ritenuto opportuno1.
La umma continuò a ingrandirsi e ad arricchirsi grazie alle spedizioni contro le carovane e le oasi – abitate da ebrei, cristiani o pagani – dell’ Arabia e delle regioni di confine siro-palestinesi (629-632). Tali agglomerati, situati a nord di Ayla (Eilat), nel Wādī Rum e nei pressi di Mu’tah, erano circondati da tribù arabe nomadi. Quando esse si schierarono con Maometto gli stanziali, terrorizzati dalle razzie, preferirono trattare con il profeta e concordare il pagamento di un tributo. Attingendo a fonti contemporanee, Michele il Siro rievoca quegli eventi:
[Maometto] cominciò a radunare delle truppe e a salire a tendere delle imboscate nelle regioni della Palestina, al fine di persuadere [gli arabi] a credere in lui e a unirsi a lui portando loro del bottino. E poiché egli, partendo [da Medina], si era recato più volte [in Palestina] senza subire danni, anzi, l’aveva saccheggiata ed era tornato carico <di bottino>, la cosa [la predicazione di Maometto] fu avvalorata ai loro occhi dalla loro avidità di ricchezze, che li portò a istituire la consuetudine fissa di salire lì a fare bottino… Ben presto le sue truppe si misero a invadere e a depredare numerosi paesi [… ]. Abbiamo mostrato in precedenza come, sin dall’inizio del loro impero e per tutta la durata della vita di Maometto, gli arabi partissero per fare prigionieri, saccheggiare, rubare, tendere insidie, invadere e distruggere i paesi.2
Alla morte del Profeta (632), quasi tutte le tribù del Hijāz avevano aderito all’islam, in Arabia l’idolatria era stata vinta e le Genti del Libro (ebrei e cristiani) pagavano un tributo ai musulmani. Il successore del profeta, Abū Bakr, represse la rivolta dei beduini (ridda) e impose loro l’adesione all’islam e il pagamento dell’imposta legale (zakāt). Dopo aver unificato la Penisola, egli portò la guerra (jihād) al di fuori dell’Arabia. Il jihād consisteva nell’imporre ai non musulmani una di queste due alternative: la conversione o il tributo; il rifiuto di entrambe obbligava i musulmani a combatterli fino alla vittoria (9:29). Gli arabi pagani potevano scegliere tra la morte e la conversione; quanto agli ebrei, ai cristiani e agli zoroastriani, in cambio del tributo e in base alle modalità della conquista, essi potevano «riscattare» le loro vite e al tempo stesso mantenere la libertà di culto e il sicuro possesso dei loro beni. Nel 640 il secondo califfo, Ornar ibn al-Khattāb, cacciò dal Hijāz i tributari ebrei e cristiani appellandosi alla dhimma (contratto) di Khaybar: la Terra appartiene ad Allah e al suo Inviato, e il contratto può essere rescisso a discrezione dell’imam, leader religioso e politico della umma e interprete della volontà di Allah. Ornar invocò altresì l’auspicio espresso dal profeta: «Nella Penisola Arabica non devono coesistere due religioni»3. La dottrina del jihād mutua le pratiche razziatorie tipiche dei nomadi, ma mitigandole con una serie di ingiunzioni contenute nel Corano. Furono i giureconsulti musulmani a ratificare in base alla dogmatica coranica le strategie e le tattiche delle operazioni militari legate alle guerre di conquista, il trattamento da riservare ai popoli vinti, il regime fiscale e lo status da assegnare ai territori conquistati (decima, kharaj, fay‘).
Questi giureconsulti si impegnarono a discriminare, nel colossale bottino costituito dai paesi e dai popoli sottomessi, tra i beni dello Stato (fay‘) e quelli delle tribù che avevano partecipato al jihād. Essi adottarono una classificazione fiscale delle terre conquistate funzionale alle modalità della conquista e ai trattati di resa, autentici o fittizi che fossero, nei concetti di jizya (testatico sui non musulmani), kharaj (imposta in natura o in denaro sulle loro terre) e fay‘ (beni dello Stato), che furono tutti inseriti in una concezione teologica della guerra di conquista: il jihād.
Fu dunque il diritto di conquista a determinare la categoria fiscale da applicare a un territorio (decima o kharaj) e a regolare lo status dei suoi abitanti. Questa classificazione fu attribuita dai giureconsulti medievali al secondo califfo, Omar ibn al-Khattāb.
Secondo tali giuristi, Omar avrebbe negoziato le condizioni della resa in funzione del tributo versato dai non musulmani, e si sarebbe opposto alla riduzione in schiavitù e alla spartizione immediata delle popolazioni stanziali produttrici di ricchezza, due misure che rischiavano di distruggere la fonte stessa della potenza araba, poiché i beduini non erano né abbastanza numerosi per popolare i nuovi territori, né abbastanza abili per lavorarli. Infatti i loro clan, composti da mercanti carovanieri e da una maggioranza di pastori nomadi, ignoravano le complesse tecniche economico-amministrative proprie di civiltà culturalmente evolute quali quella persiana e bizantina. Per imporre le sue decisioni, il califfo avrebbe invocato quelle prese da Maometto al tempo delle guerre contro gli ebrei di Medina, quando egli aveva confiscato i beni dei Banū Nadīr, classificandoli come fay‘, per amministrarli a beneficio della umma; quanto agli ebrei di Khaybar, il Profeta li aveva dispensati dalla schiavitù in cambio del tributo imposto sui loro raccolti.
Ornar avrebbe fatto riferimento a tali precedenti per decretare che i popoli scritturali vinti, poiché avevano negoziato la loro resa, erano protetti dalla schiavitù e dai massacri dallo stesso Stato islamico, che garantiva la sicurezza delle loro vite, dei loro beni, della loro fede, e si asteneva dall’intromettersi nei loro affari.
Questi popoli costituivano il fay‘ della umma, cioè il bottino che, in quanto appartenente alla collettività, sarebbe stato sottratto alla spartizione individuale e amministrato dal califfo.
Si formò così la peculiare categoria sociopolitica e religiosa dei «protetti» o dhimmī. Da allora Omar avrebbe introdotto nel diritto bellico concernente le popolazioni vinte una distinzione giuridica tra il bottino umano, spartito individualmente secondo le modalità della conquista, e i dhimmī, bottino collettivo soggetto al tributo. Per quanto riguarda la terra, egli si sarebbe rifatto al precedente stabilito da Maometto a proposito dei beni dei Banū Nadīr per distinguere tra le prede da spartirsi tra i singoli conquistatori e quelle che costituivano la proprietà fondiaria collettiva dello Stato musulmano.
Le conversioni all’islam e le confische dei terreni da parte dei nomadi trasferirono a poco a poco le terre del kharaj nella categoria fiscalmente privilegiata di «terre della decima». Per giunta, poiché i contadini dhimmī abbandonavano i campi e i beduini, che non erano in grado di coltivarli, li lasciavano incolti, il territorio imponibile e gli introiti dello Stato diminuivano considerevolmente. Per arginare questo duplice processo di impoverimento, i califfi omayyadi e i primi abbasidi presero una serie di misure finalizzate a vincolare il kharaj alla terra. I contadini dhimmī, in quanto fonte di reddito imponibile, furono protetti dalle usurpazioni e dalle rapine.
Alcuni testi di diritto islamico specificano la natura, la base di calcolo e le modalità di riscossione del kharaj. Nell’ epoca detta dell’islam classico, considerata la più prestigiosa della civiltà arabo-musulmana sia per il suo splendore culturale sia per l’opulenza di una corte che disponeva di ricchezze favolose, il celebre qādī di Baghdad Abū Yūsuf Ya’qūb (731-798) scrisse al riguardo un’opera fondamentale, destinata al califfo Harlin al-Rashid (786-809). L’autore raccomanda agli esattori delle tasse di trattare i tributari con gentilezza e moderazione, citando hadīth a sostegno di tale tesi. Questo saggio di diritto teorico, nonostante contenga un capitolo dedicato alle disposizioni restrittive da adottare nei confronti degli ebrei e dei cristiani, conferma l’immagine tradizionale di un governo innamorato della tolleranza e dell’equità, di un’ autentica età dell’oro per i popoli ebraici e cristiani retti dalla giustizia musulmana.
Ma una pregevole cronaca redatta da un religioso monofisita, lo pseudopatriarca Dionigi, originario di Tell Mahre, un villaggio della Mesopotamia, fotografa con esattezza la situazione fiscale dei non musulmani. Dettagliata come un’istantanea scattata su questo periodo storico di transizione, la cronaca termina nel 774 e abbraccia la Mesopotamia, l’Egitto, la Siria e la Palestina dell’VIII secolo. All’epoca i dhimmī – piccoli proprietari, artigiani o mezzadri che coltivavano i feudi assegnati agli arabi – costituivano la maggior parte della popolazione rurale, formata per lo più da cristiani (copti, siriaci, nestoriani), a cui si univano numerosi contadini ebrei. Dalla cronaca emergono i meccanismi che, in tutto l’Oriente islamizzato, condussero alla distruzione di una struttura sociale basata su una fiorente classe agricola dhimmī. Ai continui processi di confisca delle terre da parte delle tribù beduine infiltratesi con i loro greggi, o degli arabi sedentarizzati delle prime ondate della penetrazione islamica, si sommavano i devastanti effetti della pressione fiscale praticata dal governo.
Il califfo al-Mansūr (754-775) ordinò il censimento dei contribuenti soggetti al kharifj, e insediò un governatore in Mesopotamia:
Per bollare e marchiare gli uomini nella parte superiore del collo, come fossero schiavi […]. In questo caso, però, gli uomini non recavano tale segno [il marchio della Bestia] solo sulla fronte, ma anche su entrambe le mani, sul petto e perfino sulla schiena […]. Quando egli [il governatore] si presentò nelle città, tutti gli uomini furono assaliti dal terrore e si diedero alla fuga dinanzi a lui […]. Egli [al-Mansūr] istituì anche un altro governatore, con il compito di ricondurre al suo paese e alla casa di suo padre ciascuno di <coloro che si erano dati alla fuga> [… ]. Da allora non vi fu più scampo in nessun luogo, ma dappertutto regnarono il saccheggio, la malvagità, l’iniquità, l’empietà e ogni sorta di cattive azioni: calunnie, ingiustizie e vendette reciproche.4 Spremuti e torturati dagli esattori, gli abitanti dei villaggi si nascondevano o emigravano nelle città, dove speravano di confondersi nell’ anonimato della moltitudine di prigionieri deportati dalle regioni conquistate e nella massa degli schiavi arraffati durante le razzie. Tuttavia, perfino in città raramente i dhimmī sfuggivano agli esattori: «Gli uomini furono dispersi, e presero a errare da un luogo all’altro; i raccolti furono devastati, le campagne saccheggiate; la gente si mise a vagare di paese in paese».5
Il denaro veniva estorto con le percosse, le torture e la morte, specie per crocifissione6. Talvolta l’intera popolazione di un villaggio restava rinchiusa in una chiesa per parecchi giorni, senza cibo e costretta, finché non pagava un riscatto. Al tempo stesso, gli arabi che si erano appropriati con la frode delle terre dei dhimmī furono espulsi dagli agenti del fisco. Il califfo insediò un persiano [un funzionario di Baghdad a Marda], con l’incarico di ricondurvi i fuggitivi e di riscuotere il tributo. In questa città, infatti, le fughe erano state più massicce che in qualsiasi altra, e l’intera regione era occupata dagli arabi poiché i siriaci [le popolazioni indigene non musulmane] erano fuggiti di fronte alla loro avanzata.7 Quest’uomo, «di cui è impossibile trovare l’uguale, prima e dopo di lui, per l’animosità che manifestava contro gli arabi», ricondusse da tutte le città nelle quali erano dispersi gli originari abitanti di Marda, da cui, due o tre generazioni prima, erano stati scacciati dagli arabi:
In tal modo egli radunò in quella regione una moltitudine tanto grande che non vi era luogo, né villaggio, né casa che non fosse pieno e non traboccasse di abitanti. Quindi costrinse gli arabi a trasferirsi da una regione all’altra e s’impadronì di tutto ciò che possedevano; poi riempì le loro terre e le loro case di siriaci, e fece seminare il loro grano da questi ultimi.8
Il carattere paradossale di questa strategia si spiega alla luce di motivazioni di carattere fiscale. I popoli vinti non musulmani costituivano il fay‘, il bottino di guerra del califfo, e in quanto tali erano tenuti a pagargli un tributo, mentre gli arabi, avendo contribuito alla vittoria, reclamavano da lui una parte del bottino o delle sovvenzioni. Pertanto, le misure implicanti la restituzione dei beni alle popolazioni locali e la loro permanenza forzata nei villaggi andavano ad accrescere il patrimonio fondiario del califfo e le sue entrate. Il rastrellamento organizzato in tutto l’Impero abbaside per scovare i contadini dhimmī richiedeva l’impiego di un enorme numero di persone, alle quali spesso si univano i briganti, avidi di rapine e di saccheggi. Le spese per l’alloggio e il mantenimento dei decimatori e degli esattori, unite ai doni che essi esigevano dai loro ospiti, finirono per mandare in rovina i villaggi. Un cronista ci ragguaglia così sulla situazione in Palestina:
Il califfo si recò nella regione occidentale, diretto a Gerusalemme. E la sconquassò, la sconvolse, la atterrì e la devastò ancor più violentemente di quanto avesse fatto con la Mesopotamia. Agì in conformità alle profezie di Daniele sull’Anticristo stesso. Trasformò il tempio in moschea, infatti quel poco che restava del Tempio di Salomone divenne una moschea a uso degli arabi [… l. Egli restaurò le rovine di Gerusalemme. Assaliva gli uomini impadronendosi dei loro beni e del loro bestiame, soprattutto dei bufali. Non lasciò nulla a nessuno di sua volontà. E, dopo aver arrecato ogni sorta di devastazioni, come aveva fatto in Mesopotamia, all’inizio dell’inverno ritornò in Mesopotamia per soggiornarvi e continuare la sua opera di distruzione.9
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2. Michele il Siro, Chronique de Meichelin le Syrien, patriarche jacobite d’Antioche (1166-1199).
3. Ibn Ishāq, Sīra rasūl Allāh cit.., p. 525; al-Bukhārī, Les traditions islamiques cit., vol. 2, titolo 41, cap. 17 e titolo 54, cap. 14; vol. 4, titolo 89, cap. 2; Muslim ibn al-Hajjāj, (morto nell’875), Traditions (al-Sahīh), trad. di Abdül Hamīd Siddīqī, 4 voll., Muhammad Ashraf Press, Lahore 1976, voI. 3, cap.723 (4366); Antoine Fattal, Le statut légal des non-musulmans en pays d’islam, Imprimerie Catholique, Beirut 1958 1 (Dar el Machreq, Beirut 1995 2), p. 85.
4. Jean-Baptiste. Chbot (a cura di), Chronique de, Denys de Tell Metré, quatrième parttie, Bibliothèque de l’École des Hautes Etudes, Bouillon, Paris 1895, pp. 104-105.
5. ivi, p. 112; per le città come luoghi di rifugio vedi Ashtor, A Social and Economie History of the Near East cit., p. 17.
6. Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 193-195; Lokkegaard, Islamic Taxatlon In the Classical Period cit., p. 92.
7. Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 105-116. Nelle cronache siriache i termini «egiziani, siriaci» designano sempre le popolazioni indigene cristiane monofisite. Invece gli arabi sono chiamati «tayyaye», dal nome di una tribù nomade del Nord dell’ Arabia, i Banū Tayy o Banū Tayyiya.
8. Ivi.
9. Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 108-109.