La schiavitù nell’Islam

schiavitù nell'Islam

Il tema del “padrone e dello schiavo” comporta nel Corano due realtà distinte ma parallele. Da una parte, a un livello “superiore”, la servitù (‘ubūdiyya) è caratteristica essenziale della condizione ontologica dell’umanità tutta intera di fronte al Creatore, “il Signore”, al-Rabb. Maometto stesso è “il servo” (II:23) così come il Messia prima di lui (IV:172). In tal modo il termine ‘ibād, “servi”, designa l’umanità. Secondo la stessa logica, gli atti attraverso i quali l’umanità traduce la propria sottomissione e si riconosce nella condizione di servitù davanti al Signore, cioè gli atti cultuali nel loro insieme (preghiera, pellegrinaggio ecc.) sono definiti ‘ibādāt, un altro termine derivato dalla stessa radice «’bd». La servitù dell’uomo si traduce nel rispetto scrupoloso dell’insieme dei comandamenti divini espressi nella sharī’a, cioè l’obbedienza agli ordini e ai divieti del Signore. Questo è il disegno che il musulmano deve mettere in opera per assicurarsi la salvezza.

D’altra parte, a un altro livello giuridico, la servitù definisce lo statuto legale degli schiavi di fronte ai loro padroni umani. Il Corano, contrariamente al Nuovo Testamento (che lo fa implicitamente), non condanna il principio della schiavitù; quest’ultima è un’istituzione ritenuta naturale o, tutt’al più, che si inscrive senza alcun salto logico nell’ordine del mondo e delle realtà umane, voluta e creata da Dio (XVI:71; XXX:28). Lo schiavo, semplicemente, non è stato beneficiato da Dio degli stessi diritti delle altre persone. L’ineguaglianza originale della condizione umana, secondo il Corano, è di istituzione divina.

La schiavitù era praticata nell’Arabia preislamica – ma poco se ne ne sa – e gli schiavi erano per la gran parte abissini. Maometto stesso aveva degli schiavi.
Il Corano stabilisce inoltre una distinzione tra schiavi (raqaba) e schiavi credenti (raqaba mu’mina). Infine, per un musulmano che cerca una sposa, una musulmana schiava è migliore di una miscredente di condizione libera (II:221).

Ad onor del vero va detto che sia il Corano che la Sunna, esprimono la necessità di trattare gli schiavi con benevolenza (ihsān), e dall’altra sulla meritorietà che vi è nell’emanciparli. Lungi dall’essere semplicemente formali, queste raccomandazioni si traducono in numerose disposizioni pratiche poi sistematizzate nel fiqh: emancipare uno schiavo o una schiava ha valore di pena espiatoria (kaffara) per emendare alcuni delitti/peccati (IV:92; V:89; LVIII:3) ed è cosa buona in sé (XC:13); un padrone non può costringere la schiava a prostituirsi (XXIV:33); il padrone è incoraggiato a concludere un contratto di affrancamento con lo schiavo se questi glielo propone (XXIV:33). A tale riguardo le elemosine legali (sadaqāt) sono destinate, tra le altre cose, a pagare il prezzo di questa emancipazione (IX:60).  Molti dei versetti riguardanti l’emancipazione degli schiavi Maometto li “ricevette” per convertire queste persone alla religione islamica, ed aumentare quindi il numero di combattenti nell’esercito musulmano, bisogno primario questo dato che come sappiamo Maometto visse praticamente tutta la sua esistenza in guerra contro gli “infedeli”.

Gli schiavi musulmani dei due sessi hanno infine la possibilità di sposarsi con musulmani o musulmane di condizione libera o servile (II:221; IV:25), e quanto al padrone di una schiava, egli ha il diritto di goderne fisicamente e di prenderla come concubina senza che ella figuri tra le sue mogli (LXX:30).

L’inferiorità intrinseca dello statuto di schiavo si traduce nel Corano in modo evidente: la legge del taglione vuole che la vita di un uomo libero valga quella di un uomo libero, quella di uno schiavo quella di uno schiavo e quella di una donna quella di una donna (II:178). Nella necessità di valutarie materialmente, queste vite non hanno lo stesso valore, e il “prezzo del sangue” (diya) non è quindi lo stesso.

La schiavitù nel fiqh

Nel fiqh, le disposizioni coraniche e quelle derivate dalla Sunna sono state sviluppate in un sistema complesso, e la distinzione tra schiavi musulmani e non musulmani è rilevante.
Un principio, talvolta inevaso, vuole che lo statuto originale di un essere umano sia la libertà; così, per esempio, un bambino trovato per strada (laqīt) e del quale non si sappia nulla è presunto libero.
Lo statuto dello schiavo è misto: per certi aspetti è un “figlio di Adamo” (ādamī) che gode di alcuni diritti e doveri inerenti a questa qualifica; per altri riguardi è una merce che, al pari di ogni altra mercanzia, si presta a tutte le operazioni commerciali. La testimonianza di uno schiavo non ha alcun valore. Ciononostante, il suo statuto gli procura de facto certi vantaggi in materia di diritto penale; infatti, le pene coraniche che lo riguardano sono dimezzate rispetto a quelle di un musulmano che abbia commesso lo stesso delitto, e ciò significa evidentemente che la vita di uno schiavo vale la metà di quella di una persona libera. Uno schivo può essere di proprietà di numerose persone; le prerogative dei suoi padroni sono in tal caso differenti, soprattutto per quello che concerne il concubinaggio.
Il padrone esercita una tutela sull’insieme delle attività dei suoi schiavi. Per quanto in linea generale una pena legale possa essere amministrata solo tramite un rappresentante dell’autorità politica, il padrone può, in alcuni casi, decidere dell’opportunità della pena da comminare al suo schiavo che si sia reso colpevole di qualche delitto, e applicarla egli stesso: lo schiavo è nelle mani del suo padrone esattamente come gli esseri liberi sono nelle mani di Dio; ma con la differenza che il padrone umano è presente nella comunità, mentre il Padrone divino non lo è essendo rappresentato dall’ autorità politica, cioè dall’imam e dai suoi delegati. In sintesi, il padrone è nei confronti del suo schiavo quel che Dio, se fosse sulla Terra, sarebbe nei confronti dei suoi schiavi cioè l’umanità.
Per principio, un non musulmano libero può essere ridotto in schiavitù, e il musulmano o una musulmana possono essere di condizione servile solo se nati in schiavitù. Ma quando un non musulmano ridotto in schiavitù si converte all’islam non si ritrova automaticamente emancipato. Tutto sta al consenso del Padrone. Uno schiavo può acquistare la libertà dedicandosi a una attività che gli frutti il denaro necessario per riscattarsi; in tal caso è detto mukātab. Un padrone (o una padrona), inoltre, può specificare, che alla propria morte il tale schIavo sarà libero; lo schiavo è allora detto mudabbar e può essere oggetto delle medesime transazioni di uno schiavo ordinario. Quando un bambino nasce da una relazione tra il padrone e la schiava, è di condizione libera e la madre, definita umm al-walad, “la madre del bambino”, non può essere oggetto della benché minima transazione finanziaria ed è ipso facto affrancata alla morte del padrone. Infine, uno schiavo affrancato e la sua discendenza maschile conservano con l’ex-proprietario e la sua famiglia una relazione particolare definita walā, una sorta di patronato avente effetti giuridici.

La schiavitù nella storia delle società musulmane

Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza dell’istituzione della schiavitù nel seno alle società musulmane. Nel quotidiano, gli schiavi sono presenti ovunque, non solamente nelle cerchie agiate ma anche più semplicemente sotto il giogo dei membri di classi che oggi si direbbero “medie”. Non essendo mai stata contrassegnata da un giudizio apertamente negativo sul piano etico-legale, iscrivendosi piuttosto nell’ordine divino delle cose ed essendo prevista dalla sharī’a, si può dire che la schiavitù nel mondo musulmano, rappresentato dai suoi ulamā, non sia mai stata oggetto di una critica radicale né di alcuna condanna in via di principio. Nelle discussioni degli ‘ulamā’ può trovarsi, nel migliore dei casi una mitigazione delle condizioni della sua applicabilità e, nel caso peggiore, un richiamo alla sua legitlimità atemporale. Gli ultimi paesi schiavisti musulmani hanno abolito la schiavitù per le pressioni esterne; tuttavia la schiavitù esiste, quasi di diritto, ancora in certi paesi sahariani e, di fatto, nella penisola araba.

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Le vie dello schiavismo arabo nordafricano verso i territori subsahariani

Nella storia dell’islam, lo schiavismo ha rivestito diverse forme. Si è avuta la schiavitù domestica, quella perpetuatasi fino a oggi, che è polimorfa: dall’uomo tuttofare – per lo più di colore, come ai tempi del Profeta – che non vale granché sul mercato fino alla superba schiava caucasica dalla pelle chiara, acquistata per concubinaggio e del valore di una piccola fortuna. La storia ha registrato le rivolte degli Zanj, schiavi neri catturati sulle coste dell’Africa orientale nei secoli I/VII e III/IX.
Il ruolo politico degli schiavi non è stato affatto trascurabile. Il fenomeno delle milizie costituite esclusivamente da schiavi, per iniziativa delle autorità politiche, è molto antico nel mondo islamico, e le autorità politiche in questione si sono sovente ritrovate in balia di queste milizie. Tale sistema è giunto a costituire un regime politico alquanto singolare, quello dei Mamelucchi, “gli Assoggettati” (Mamlūk significa “in stato di servitù”), che governarono l’Egitto e la Siria con una certa vivacità sotto la tutela formale del califfato abbaside, dal XIII secolo all’inizio del XVI secolo. Come indica il loro nome, erano schiavi, catturati in Asia centrale o in Europa orientale. Nella maggior parte dei casi erano schiavi di liberti: erano educati nell’islam, addestrati alle armi – erano prima di tutto dei militari – e quindi affrancati; la loro fedeltà si rivolgeva solo ai padroni grazie ai quali godevano di una posizione privilegiata rispetto alla popolazione della loro terra d’origine e, paradossalmente, nel luogo della loro schiavitù essi formavano una casta privilegiata. Anche il sultano, ossia la persona investita del potere politico, proveniva in un modo o nell’ altro da questa casta.

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