Zone d’ombra del testo coranico – Le parole straniere
La presenza nel Corano di parole ed espressioni difficili da comprendere nonché di un vocabolario indubbiamente non arabo ha da lungo tempo suscitato l’attenzione della ricerca scientifica occidentale. Ma ben prima, a partire dall’epoca medievale, gli studiosi e i letterati musulmani hanno considerato la questione con particolare interesse.
Il testo coranico insiste molto sul fatto che la lingua della Rivelazione a Maometto è l’arabo (12,2; 13,37; 20,113; 39,28; 41,3; 42,7; 43,3; 46,12), e che si tratta per di più di un “arabo chiaro” (16,103; 26,195). Il versetto 41,44 sembra spingersi oltre per sottolineare la purezza dell’arabo coranico: «Se Noi avessimo fatto un Corano in lingua straniera (a’jamī, cioè “non arabo”), avrebbero detto di certo: “Perché non sono chiari precisi i suoi Segni? Come avviene che costui è arabo e questo è lingua straniera?”». Questo genere di asserzioni servì da fondamento alle argomentazioni ideologiche e apologetiche di un numero di correnti esegetiche e teologiche le quali, dagli albori dell’islam, difesero l’arabicità come segno di elezione e la lingua araba come lingua divina. Secondo il fìlologo Abū ‘Ubayda (m. 208/824), pretendere che il Corano potesse contenere parole non arabe è un’offesa a Dio.
La posizione dei sostenitori della pura arabicità del Corano è illustrata da una dichiarazione attribuita a Ibn ‘Abbās (m. 68/687 circa, cugino del Profeta, considerato dalla maggioranza dei dei sunniti padre dell’esegesi coranica), secondo la quale Dio non rivelò mai nulla che non fosse in lingua araba. Nel caso di religioni diverse da quella proclamata da Maometto, l’angelo Gabriele avrebbe tradotto le rivelazioni originali arabe nella lingua dei vari profeti e dei popoli destinatari. Secondo alcuni pensatori appartenenti a queste correnti, nozioni tanto importanti quanto l'”lontano dall’essere un “miracolo”” erano fondate appunto su questo dogma.
Altri dotti, di fronte ad una così grande contraddizione come la diretta negazione da parte di Dio dell’esistenza di un qualcosa che però era sotto agli occhi di tutti, sostenevano tesi più blande. Rilevando nel Corano la presenza inconfutabile di parole di origine chiaramente non araba, questi letterati affermavano che tali termini, importati da altre lingue nei tempi antichi, fossero stati integrati alla lingua araba molto tempo prima della rivelazione coranica, e che di conseguenza essi potessero considerarsi arabi; è questo per esempio il caso del celebre Abū ‘Ubayd (m. 224/838). Per il famoso esegeta e storico Tabarī, che riprende e sviluppa in parte le tesi di Shāfi’ī, alcune parole coraniche sembrano straniere perché somigliano a termini appartenenti alle lingue prossime all’arabo, e tale somiglianza è per lo più frutto di una semplice coincidenza. Infine, altri autori, spesso fini lessicografi, considerano apertamente la presenza di un vocabolario non arabo nel testo coranico, ma senza che questa metta in discussione ai loro occhi il carattere sacro e inimitabile del Testo. Va anche precisato che numerosi esegeti, grammatici, filologi e lessicografi musulmani non erano arabi, e riconoscevano in alcuni termini coranici le parole della propria lingua materna e della lingua religiosa dei loro antenati.
Nel suo commentario coranico, Muqātil ibn Sulaymān (m. 150/767) sottolinea esplicitamente l’origine persiana, greca, siriaca, etiopica o nabatea di alcuni termini; per esempio ritiene che Mūsā, il nome arabo di Mosè, derivi dal copto, e che Nūh, appellativo arabo di Noè, sia di origine siriaca. Quanto al letterato Ibn Qutayba (m. 276/889), seguito in questo da Abū Bakr al-Sijistānī (m. 330/942), rileva le origini straniere dei termini qistās (“bilancia”, 17,35) e istabraq (“broccato” 18,31).
Il carattere sacrale delle lingue diverse dall’arabo è nettamente riconosciuto da alcuni. Per esempio, nel V/XI secolo, il persiano Abū Rayhān al-Birūnī associa l’aramaico e il siriaco al cristianesimo.
Per l’andaluso Ibn Hazm, la lingua di Abramo era il siriaco, quella di Isacco l’ebraico e quella di Ismaele l’arabo. A quest’epoca, inoltre, il termine mu’arrab, “arabizzato” è impiegato sempre più apertamente per designare il lessico coranico non arabo. Compare anche nel titolo della monografia di Jawālīqī (m. 539/1144), Il libro delle parole arabizzate derivate da lingue non arabe (Kitāb al mu’arrab min al-kalām al-a’jamī). Jalāl al-Dīn al-Suyūtī (m. 911/1505), tra gli ultimi grandi eruditi di scienze coraniche dell’islam classico, dedicò alla questione due intere opere: il libro dedicato al califfo Mutawakkil sui termini arabizzati del Corano” (Al-mutawakkilī fī-mā warada fī al-Qur’ān bi-al-lughāt mukhtasa fī mu’arrab al-Qur’ān) e Il libro emendato dei termini arabizzati del Corano (Al-muhadhdhab fī-mā waqa’a fī al-Qur’ān). Queste opere vertono sullo studio di più di un centinaio di parole straniere presenti nel Corano., derivate da dieci o undici lingue diverse. Anche il capitolo XXXVIII di Al-itqān fī ‘ulūm al-Qur’ā, enorme opera del medesimo autore sulle differenti scienze coraniche, è interamente consacrata a questa problematica.
Nonostante queste difese sulla presenza dei termini non arabi nel Corano, e della sua inimitabilità e unicità, il problema rimane. Se un libro che si vuol sostenere essere scritto interamente in arabo puro, ed essere il più eloquente, inimitabile e unico, che senso ha la presenza all’interno di esso di parole prese in prestito da altre lingue che non siano l’arabo, per utilizzarle in allocuzioni e discorsi? Che bisogno ha Allah di usare nel suo Libro altre lingue proprio lui che diceva: «In verità lo abbiamo fatto scendere come Corano arabo, affinché possiate comprendere.» (12,2)? Che senso ha rivolgersi agli arabi con parole persiane quali per esempio “rivestiti di vesti di seta, stoffa di seta, bricchi e cuscini”? Rispettivamente: al-istabraq (18,31; 44,53; 55,54; 76,21), sundus (18,31; 44,53; 76,21), namāriq (88,15). Uno degli esempi che fa più sensazione riguarda le huri citate nel Corano (44,54; 52,20; 55,72; e 56,22). Nel Corano vi sono numerosi altri esempi come questi, nonostante esistesse l’equivalente arabo: per esempio Ingil (dal greco “Evangelion”) invece di Bushra o Bisciara; Thorah (ebraico) invece di Sciari’ah; giuhannam (ebraico) invece di giahim ecc…
Altre parole non arabe sono: haqqah, ovvero “inevitabile” (69:1); laylat al-qadr, ovvero “la Notte del Destino” (79:1); falaq, ovvero “alba” (113:1); kawtar, ovvero “abbondanza, forse il fiume del Paradiso (108:1); salsabil e zangabil, ovvero i beati del Paradiso berranno liquore “che è miscela di zenzero” (zangabil)” che sgorga da una fonte di nome Salsabil (76:17-18); Rahman, ovvero “clemente”, che è uno dei nomi di Dio, diffusissimo nel Corano ove compare, secondo la redazione definitiva, nella basmalah (bi-ism-Allah al-Rahman al-Rabim) che apre ciascuna sura e il cui uso all’interno di alcune sure caratterizzerebbe le rivelazioni del secondo periodo meccano.
Di fronte ad una contraddizione così plateale si dovrebbe ammettere che, o a Maometto l’arabo sembrò insufficiente e poco ricco, e, dunque, fu obbligato a usare un’altra lingua, e di conseguenza smentirebbe lui stesso la perfezione del Corano, e quindi l’inimitabilità di esso; oppure Maometto ignorava l’equivalente arabo di quelle parole. In ogni caso si ha la dimostrazione dell’inganno messo in atto da Maometto, secondo cui il Corano gli sarebbe stato rivelato da Allah. Perché se questo fosse vero, e cioè che questi termini furono rivelati da Allah per mezzo dell’arcangelo Gabriele, dovremmo attribuire l’insufficienza letterale, oltre che a Maometto, anche a chi gli inviava la rivelazione (Allah) e a chi gliele consegnava (l’arcangelo Gabriele).
Questa ipotesi è palesemente assurda essendo in contraddizione con l’essenza di un Dio onnipotente e perfetto. Quindi non ci rimane che credere che Maometto, pur dovendo attenersi all’arabo, non conoscendo alcuni termini in questa lingua, dovette arrangiarsi con lingue diverse. A queste si va ad aggiungere una terza ipotesi (anch’essa inconcepibile per i musulmani ma palese per gli studiosi dell’Islam), secondo cui durante la redazione del Corano i versetti furono manipolati e distorti da chi ebbe il compito di raccoglierli e metterli per iscritto, ma questo violerebbe il dogma dell’incorruttibilità del libro sacro dell’Islam (6:34; 6:155).
E’ interessante osservare che, pur dopo il periodo di resa di fronte all’evidente contraddizione, gli eruditi musulmani contemporanei, da Muhammad Shākir, editore del già citato Jawālīqī, gli autori wahhabiti ed altri polemisti, autori di testi di propaganda su internet, sembrano in gran parte ritornati alle antiche posizioni apologetiche delle tendenze esclusiviste, negando l’esistenza di qualsivoglia lessico non arabo nel Corano.