Le vergini e l’uva: le origini cristiane del Corano
Uno studioso tedesco di lingue antiche rilegge il libro sacro dell’islam. Sostiene che è nato ad opera di cristiani di lingua siro-aramaica, per evangelizzare gli arabi. E lo traduce in modo nuovo.
di Sandro Magister
ROMA – Che l´aramaico sia stata la lingua franca di una vasta area del Medio Oriente antico è nozione ormai arcinota a un vastissimo pubblico, grazie all´ultimo film di Mel Gibson, “The Passion of the Christ”, ascoltato da tutti proprio in quella lingua.
Ma che il siro-aramaico sia stato anche radice del Corano, e del Corano di primitivo impianto cristiano, è nozione più specialistica, quasi clandestina. E parecchio pericolosa. L´autore del libro più importante in materia – un professore tedesco di lingue antiche semitiche ed arabe – ha preferito, per prudenza, firmare con lo pseudonimo di Christoph Luxenberg. Qualche anno fa un suo collega dell’università di Nablus in Palestina, Suliman Bashear, è stato gettato dalla finestra da suoi allievi musulmani scandalizzati.
Anche nell´Europa del Cinquecento e del Seicento, dilaniata dalle guerre di religione, i biblisti usavano tenersi al riparo con pseudonimi. Ma se oggi a farlo sono studiosi del Corano, musulmani e non, è segno che anche per il libro sacro dei musulmani è cominciata l´era delle riletture storiche, linguistiche, filologiche.
È un inizio promettente per molti motivi. Gerd-Rüdiger Puin, professore all’università della Saar in Germania e anch´egli studioso di filologia del Corano, sostiene che questo tipo di accostamento al libro sacro dell´islam può aiutare a sconfiggere le sue letture fondamentaliste e manichee, e a mettere in miglior luce i suoi legami con l´ebraismo e il cristianesimo.
Il libro di “Christoph Luxenberg” è uscito nel 2000 in Germania col titolo “Die Syro-Aramäische Lesart des Koran” (“La lettura siro-aramaica del Corano”), edito a Berlino da Das Arabische Buch. È esaurito e non ne esistono traduzioni in altre lingue. Ma sta per arrivare in libreria una sua nuova edizione aggiornata, sempre in tedesco.
Ecco qui di seguito un´intervista con l´autore, pubblicata in Germania sul quotidiano “Süddeutsche Zeitung” e in Italia su “L´espresso” n. 11 del 12-18 marzo 2004:
Dal Vangelo all´islam
Intervista con “Christoph Luxenberg”, di Alfred Hackensberger
D. – Professore, per quale motivo ha ritenuto utile fare questa rilettura del Corano?
R. – Perché nel Corano si trovano numerosi punti oscuri dei quali fin dall´inizio gli stessi commentatori arabi non riuscirono a dare una spiegazione. Di questi passaggi si è detto che Dio solo può comprenderli. La ricerca coranica occidentale, iniziata in maniera sistematica solo intorno alla metà del XIX secolo, ha sempre adottato come base i commenti degli studiosi arabi. I quali però non sono mai andati al di là della spiegazione etimologica di qualche termine di origine straniera».
D. – In che cosa il suo metodo si differenzia?
R. – Sono partito dall´idea che il linguaggio del Corano si debba studiare in un´ottica storico-linguistica. Ai tempi della nascita del Corano l´arabo non esisteva come lingua scritta; perciò mi è sembrata evidente la necessità di prendere in considerazione soprattutto l´aramaico, che all´epoca, tra il IV e i VII secolo, era non solo la lingua della comunicazione scritta, ma anche la lingua franca di quell´area dell´Asia occidentale”.
D. – Ci descriva come ha fatto.
R. – In un primo tempo ho fatto una lettura ´sincronica´. In altri termini: ho tenuto presente al tempo stesso sia l´arabo che l´aramaico. Grazie a questo procedimento ho potuto scoprire il grado di incidenza finora insospettato dell´aramaico nel linguaggio del Corano: di fatto, buona parte di ciò che oggi passa sotto il nome di ´arabo classico´ è di derivazione aramaica”.
D. – Che dire allora dell´idea, finora accettata, che il Corano sia il primo libro scritto in lingua araba?
R. – Secondo la tradizione islamica, il Corano risale al VII secolo, mentre i primi esempi di letteratura araba nel senso pieno del termine si trovano solo due secoli dopo, al tempo della ´Biografia del Profeta´, cioè della vita di Maometto scritta da Ibn Hisham, morto nell´828. Possiamo quindi ritenere che la letteratura araba post-coranica si sia sviluppata per gradi, e in epoca successiva all´opera di al-Khalil bin Ahmad, morto nel 786, fondatore della lessicografia araba (kitab al-ayn), e di Sibawwayh, morto nel 796, cui si deve la grammatica araba classica. Ora, se assumiamo che la stesura del Corano sia stata portata a termine nell´anno della morte del Profeta Maometto, il 632, ci troviamo davanti a un intervallo di centocinquant´anni, durante i quali non si trova traccia di una letteratura araba degna di nota”.
D. – Quindi, ai tempi di Maometto l´arabo non aveva regole precise e non era utilizzato nella comunicazione scritta. Ma allora, come si è arrivati a scrivere il Corano?
R. – A quei tempi non esistevano scuole arabe, a eccezione, forse, dei centri cristiani di al-Anbar e al-Hira, nella Mesopotamia del sud che corrisponde all´Iraq dei giorni nostri. Gli arabi di quella zona erano stati cristianizzati e istruiti dai cristiani siriani. La loro lingua liturgica era il siro-aramaico. Ed era questo il veicolo della loro cultura, e più in generale la lingua della comunicazione scritta».
D. – E qual è il rapporto tra questa lingua della cultura e della comunicazione scritta e la genesi del Corano?
R. – “A partire dal III secolo, i cristiani siriani non si erano limitati a portare la loro missione evangelica nei paesi vicini: l´Armenia o la Persia. Si erano spinti verso territori distanti, fino ai confini della Cina e alla costa occidentale dell´India, nonché su tutta l´area della penisola arabica, fino allo Yemen e all´Etiopia. È assai probabile quindi che per annunciare ai popoli arabi il messaggio cristiano usassero tra le altre, anche la lingua dei beduini, cioè l´arabo. Per diffondere il Vangelo dovevano necessariamente servirsi di un miscuglio di lingue. Ma in un´epoca in cui l´arabo era solo una congerie di dialetti e non aveva una forma scritta, i missionari non potevano che attingere alla propria lingua letteraria e alla propria cultura, cioè a quella siro-aramaica. Ne consegue che il linguaggio del Corano nasce come lingua scritta araba, ma di derivazione arabo-aramaica”.
D. – Intende dire che chi non tiene conto della lingua siro-aramaica non può tradurre e interpretare correttamente il Corano?
R. – Sì. Chiunque voglia approfondire lo studio del Corano dovrebbe avere una preparazione nel campo della grammatica e della letteratura siro-aramaiche di quel periodo, il VII secolo. Solo così potrà individuare il senso originario di espressioni arabe la cui interpretazione semantica si può evincere soltanto ritraducendole, appunto, in siro-aramaico”.
D. – Veniamo ai fraintendimenti. Uno degli errori più clamorosi da lei citati è quello delle vergini promesse nel paradiso islamico agli attentatori suicidi.
R. – “Partiamo dal termine ´huri´, per il quale i commentatori arabi non hanno saputo trovare altro significato se non quello delle vergini paradisiache. Ma se si tiene conto delle derivazioni dal siro-aramaico, quell’espressione indica ´uva bianca´, che è un elemento simbolico del paradiso cristiano, richiamato nell´ultima cena di Gesù. C´è anche un´altra espressione coranica, erroneamente interpretata come ´i fanciulli´ o ´i giovani´ del paradiso: essa in aramaico designa i frutti della vite, che nel Corano vengono paragonati alle perle. Per quanto riguarda i simboli del paradiso, questi errori di interpretazione hanno probabilmente qualcosa a che fare con il monopolio maschile nel campo del commento e dell´interpretazione coranica”.
D. – A proposito, che pensare del velo islamico?
R. – C´è un passaggio della sura 24, verso 31, che in arabo significa: ´Che esse battano il loro khumur sulle loro borse´. Una frase incomprensibile, della quale si è cercato di dare la seguente interpretazione: ´Che esse stendano i loro fazzoletti da testa sui loro seni´. Se invece questo passaggio si legge in chiave siro-aramaica, significa semplicemente: ´Che esse allaccino le loro cinture intorno ai loro fianchi´».
D. – Il velo come cintura di castità?
R. – Non propriamente. È vero che nella tradizone cristiana la cintura è associata alla castità: Maria porta una cintura legata intorno ai fianchi. Ma nel racconto evangelico dell´ultima cena anche il Cristo si legò un grembiule intorno ai fianchi prima di lavare i piedi agli apostoli. Evidentemente esistono numerosi paralleli con la fede cristiana”.
D. – Lei ha trovato che la sura 97 del Corano menziona il natale. E nella sua traduzione della famosa sura di Maria, il “parto” di Maria è “reso legittimo dal Signore”. E inoltre il testo conterrebbe l´invito a recarsi alle sacre liturgie, cioè alla messa. Ma allora il Corano potrebbe non essere altro che una versione araba della Bibbia cristiana?
R. – All´origine, il Corano è un libro liturgico siro-aramaico, con inni e con estratti della Sacra Scrittura che potrebbero essere stati usati nelle sacre ufficiature cristiane. In secondo luogo, si può vedere nel Corano l´inizio di una predicazione volta a trasmettere la fede nelle Sacre Scritture ai pagani della Mecca, in lingua araba. Quanto alle sue parti socio-politiche, le quale non hanno molto a che fare con il Corano originario, sono state aggiunte successivamente a Medina. In origine, il Corano non fu concepito come il fondamento di una nuova religione. Esso presuppone la fede nella Scrittura, e aveva quindi solo una funzione di tramite verso la società araba”.
D. – A molti musulmani credenti, per i quali il Corano è il libro sacro e l´unica verità, le sue conclusioni potrebbero sembrare blasfeme. Quali reazioni ha notato finora?
R. In Pakistan è stata vietata la vendita del numero di ´Newsweek´ che conteneva un articolo sul mio libro. Ma per il resto, devo dire che nei miei incontri con persone di fede musulmana non ho notato alcun atteggiamento ostile. Al contrario, hanno apprezzato l´impegno di un non musulmano nello studio finalizzato a una comprensione oggettiva del loro testo sacro. Il mio lavoro potrebbe essere giudicato blasfemo solo da chi decidesse di aggrapparsi agli errori d´interpretazione della parola di Dio. Ma nel Corano sta scritto: ´Nessuno può riportare sulla retta via chi è indotto in errore da Dio´”.
D. – Non teme una fatwa, una condanna a morte come quella pronunciata contro Salman Rushdie?
R. -Non sono musulmano, e quindi non corro questo rischio. E poi non ho offeso il Corano”.
D. – Eppure ha preferito usare uno pseudonimo.
R. – L´ho fatto su consiglio di amici musulmani i quali temono che qualche fondamentalista esaltato entri in azione di propria iniziativa, senza aspettare una fatwa”.
Versetti divini
Corano, in arabo Qur´an, significa recitazione, lettura. Un elemento essenziale del credo islamico è che esso si trova da sempre presso Dio ed è “disceso” integralmente su Maometto nel momento della sua chiamata profetica, chiamata la “notte del destino”. È in arabo e può essere recitato ritualmente solo in questa lingua. È diviso in 114 sure, capitoli, e ogni sura è divisa in versetti. La prima sura, detta “l´aprente”, è una breve preghiera che svolge un ruolo importante nel culto e nella vita quotidiana. Le sure successive sono allineate in ordine di lunghezza, dalla più lunga alla più breve. Secondo la tradizione Maometto avrebbe comunicato man mano ai suoi fedeli parti del Corano a lui rivelato. Le sure più antiche sono chiamate meccane, quelle successive medinesi. Le più antiche sono di carattere marcatamente teologico, le medinesi sono invece più giuridiche, dettano l´ordinamento della comunità. Per l´islam sunnita il Corano non può essere sottoposto a critica, data la sua natura divina: in ogni caso, dall´undicesimo secolo la “porta dell´interpretazione” del Corano è chiusa.
La sua ricerca parte dalle conclusioni di molti studiosi Occidentali sull’influenza che il siriano antico ha avuto sull’evolversi della lingua Araba e sul Corano stesso.
Ora, in Arabo la maggior parte delle lettere sono consonanti; le vocali delle parole vengono decise dai punti diacritici sopra queste lettere (questi punti sono parte del linguaggio; ad esempio in Italiano gli unici punti diacritici sono gli accenti, mentre in altre lingue si usano punti diacritici per distinguere i dittonghi o il suono della consonante).
Luxenberg cerca di dare un’interpretazione diversa del Corano alterando questi punti diacritici laddove i commentatori sono incerti o indecisi sul loro reale significato, ma lo fa seguendo una precisa metodologia.
Il suo metodo funziona grossomodo così: come base usa l’edizione del 1922-23 del Cairo del Corano senza i termini arabi che usano le vocali; partendo dai passaggi che non sono chiari ai commentatori Occidentali.
Quando si ha una chiara scelta tra due possibili letture, usa il metodo del lectio difficilior (termine latino che denota una tecnica in uso presso chi studia testi antichi quando si trovano davanti a diverse parole in diversi documenti; in genere si considera quella più difficile e meno comune come autentica, in quanto si è notato come in molti casi alcuni scribi semplificano i testi che trascrivono qualora incontrino parole di cui non conoscono bene il siginficato). Solo quando il contesto di un’espressione è chiaramente non chiaro, e i commentatori Arabi non hanno una spiegazione plausibile, allora Luxenberg esplora una soluzione che prevede l’alterazione dei punti diacritici dell’edizione del Cairo.
Prima controlla se esiste una spiegazione plausibile in Tabari (il famoso Tafsir). Se questo non porta a nessun risultato, controlla se l’espressione Araba ha una radice omonima in Siriano con un significato diverso che ha senso nel contesto. In molti casi, ha trovato che la parola Siriana con il suo significato ha più senso (notare che in questi primi casi non si sta modificando il testo consonante del Corano).
Se questi passi non portano a nulla, allora cerca di vedere se cambiando uno o più segni diacritici porta ad un espressione in Arabo che ha più senso. Se no, cambia i punti diacritici e controlla se vi è un omonimo in Siriano che sia plausibile.
Se ancora non c’è soluzione, controlla se l’Arabo sia un calco di un’espressione Siriana. I calchi sono di due tipi: morfologici e semantici. Un calco morfologico è un “prestito” che preserva la struttura della fonte ma usa i morfemi (?) del linguaggio bersaglio. Ad esempio, il tedesco Fernsehen è semplicemente i morfemi “tele” e “visio” della parola inglese “televisione” tradotta nei suoi equivalenti tedeschi. Un calco semantico assegna i significati presi a prestito a parole che precedentemente non avevano significato, ma che sono sinonimi con la parola d’origine (questo paragrafo non mi è chiaro al 100%, ad una prima lettura).
Luxenberg ha applicato questa sua nuova esegesi ad alcune ayah del Corano, in particolare a quello delle cosiddette “vergini” del Paradiso. Applicando tale metodo ai vari passaggi in cui si parla di esse, egli suggerisce che il termine usato per descrivere tanto le vergini dagli occhi neri quanto i giovinetti come perle siano fraintendimenti di parole Siriane che significano semplicemente “uva”.
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Questo studio non ha abbracciato il Corano nella sua interezza, ma sarebbe interessante vedere cosa cambierebbe del senso del Corano e dell’Islam stesso da questa rilettura. Anche se sarebbe di interesse già dal punto di vista storico e accademico: nessun Musulmano accetterebbe infatti una rilettura anche di una sola virgola del Corano, perché per loro sarebbe eresia pura.