Il vangelo di Barnaba
Fra i molti scritti apocrifi che pullularono nei primi secoli è ricordato anche un vangelo attribuito a san Barnaba, uno dei primi convertiti dall’ebraismo e personaggio di primo piano nella Chiesa. Il libro è catalogato fra quelli di Mattia e di Giacomo il Minore nel decreto pseudogelasiano. Compare anche in qualche altro catalogo, ma finora non se ne conosce neppure una frase sicura, se si eccettuano due espressioni – del resto assai discutibili – segnalate in un manoscritto greco e nell’orazione funebre di san Gregorio Nazianzeno su san Basilio.
Nel 1907 Lonsdale e Laura Ragg pubblicarono in Oxford un Gospel of Barnabas. Il testo originale proveniva da un manoscritto viennese del sec. XVI (molto probabilmente una copia e non l’autografo). Esso è in un italiano talvolta quasi incomprensibile per la singolarità della grammatica e dell’ortografia. Senza dubbio l’autore era italiano; ma varie annotazioni in arabo e tutto il contenuto del libro lo dimostrano conoscitore di tale lingua e di religione musulmana. Si tratta quindi di uno scritto apologetico musulmano risalente alla caduta, nel 1492, di Granada, ultima città musulmana. Scopo dell’autore è esaltare l’ortodossia della concezione musulmana di Maometto e la sua dottrina. Per dimostrare come questa sia molto vicina all’insegnamento primitivo di Gesù – infatti nel testo si possono leggere affermazioni contrarie alla divinità di Cristo e la predizione dell’avvento di Maometto, messaggero di Dio – si accusa l’apostolo Paolo come responsabile di numerose deviazioni. In particolare costui avrebbe insegnato erroneamente la divinità di Gesù e il ripudio di talune usanze giudaiche (circoncisione, divieto di mangiare carni impure, ecc.). L’autore si ispirò ad Act. Ap. 15; egli ricorse al nome di Barnaba compagno dell’Apostolo (cfr. anche I Corinth. 9, 6; Gal. 2, 9 e 13; Coloss. 4, 10), per rendere più efficace la condanna antipaolina. Nel libro si parla anche delle pene dei dannati e della felicità dei beati. Esso unisce la tradizione cristiano-musulmana sul Paradiso terrestre con quella aristotelico-tolemaica sulla configurazione dei cieli. In maniera diversa descrive i tormenti degl’iracondi, dei golosi, degli accidiosi, dei lussuriosi, degli avari, degli invidiosi e dei superbi. (fonte)
Questo apocrifo è considerato il “Vangelo dei musulmani”, perché appunto molto in linea con le credenze sul cristianesimo del mondo islamico. Ad esempio il Vangelo di Barnaba tratta Gesù come un essere umano e non come Dio. Rigetta l’idea della Santa Trinità e della crocifissione e rivela che Gesù ha predetto la venuta del profeta Maometto. (fonte)
Ma anche da un punto di vista islamico il Vangelo di Barnaba è tutt’altro che impeccabile. Per esempio, si dice che ci sono nove cieli, e che il decimo è il Paradiso; mentre nel Corano se ne parla solo di sette. Il testo in aramaico afferma che Maria diede alla luce Gesù senza dolore, mentre il Corano parla esplicitamente di travaglio del parto. Inoltre, secondo quanto riportato, Gesù nel testo apocrifo avrebbe detto ai sacerdoti ebrei di non essere il Messia, e che il Messia sarebbe Maometto. Questo nei fatti significa la negazione dell’esistenza di un Messia, e fa sì che Gesù e Maometto sembrino la stessa persona.
Per non parlare poi delle informazioni di carattere storico. Si parla della presenza di tre eserciti, nella Palestina dell’epoca, ciascuno composto da duecentomila soldati; ma l’intera popolazione della Palestina duemila anni fa non raggiungeva probabilmente le duecentomila unità, secondo alcuni studiosi. Insomma, tutto fa pensare che si tratti di un bellissimo falso. Ma quando è stato fatto? Una traccia c’è, ed è contenuta nel capitolo 217. L’ultima frase afferma che sul corpo di Cristo vennero piazzate cento libbre (pound) di pietra. E questo farebbe pensare che la stesura del Vangelo è recente: il primo uso della libbra (pound) come unità di misura risale all’Impero ottomano, nei suoi contatti con Italia e Spagna. Secondo alcuni analisti il vangelo attribuito a San Barnaba è stato scritto da un ebreo europeo del Medio Evo, che aveva una certa familiarità con il Corano e i Vangeli. Ha mescolato fatti ed elementi dall’uno e dagli altri; ma le sue intenzioni restano sconosciute. (fonte)
Nel libro si parla anche delle pene dei dannati e della felicità dei beati. Esso unisce la tradizione cristiano-maomettana sul Paradiso terrestre con quella aristotelico-tolemaica sulla configurazione dei cieli. In maniera diversa descrive i tormenti degl’iracondi, dei golosi, degli accidiosi, dei lussuriosi, degli avari, degli invidiosi e dei superbi.
Tale divisione dei peccati, insieme con talune espressioni, è stata segnalata da L. Ragg come probabile indizio di una dipendenza di Dante Alighieri dallo strano apocrifo. Ella vi aggiunge anche un certo rispetto del poeta per Maometto, collocato fra gli eretici e non fra i pagani. Sono tutti argomenti discutibili e ipotetici – del resto vengono presentati come tali -; contro una certa probabilità di una conclusione positiva si possono ricordare la diffidenza di Dante per gli apocrifi in genere e la sua grande stima per l’apostolo Paolo, tanto criticato nel Vangelo di Barnaba. Inoltre c’è la questione cronologica. L’apocrifo è assegnato fra il 1300 e il 1349 in forza della frase (fol. 85b. 87a) ” il iubileo… che hora viene ogni cento hanni “. Si accetti pure tale argomento e si ponga la composizione dell’apocrifo all’inizio del secolo; è difficile ammettere che un’opera che non ebbe alcun successo, e con una diffusione minima, influenzasse la Commedia, la cui redazione definitiva è anteriore al 1321. (fonte)