La lingua araba
1. Origine della lingua araba 2. L'arabo, la lingua di Allah
– La scrittura dell’arabo classico si sviluppò dalla forma tardo-nabatea dell’aramaico. L’alfabeto aramaico dei Nabatei arabi, con la loro capitale Petra, è il precursore della scrittura araba. La scrittura dei graffiti arabi era soprattutto aramaica o nabatea.1 Secondo Il Kitab al-Aghani («Il libro dei canti») tra i primissimi inventori della scrittura araba ci furono due cristiani di al-Hīra (Zaid Ibn Bammad e suo figlio).2 A Zabad (a sud-ovest di Aleppo) sono state trovate delle iscrizioni cristiane in tre lingue, siriano, greco e arabo, degli anni 512-513 d.C, finora le più antiche testimonianze scoperte della scrittura araba.
– E’ evidente come i cristiani arabbiano giocato un ruolo nella storia della lingua araba nel VI secolo.3 I testi più antichi di un arabo «classico» risalgono al III secolo d.C. e presto si sviluppò una poesia araba straordinariamente artistica in ambito semitico. E’ certo che la lingua e la scrittura araba furono ulteriormente sviluppate alla corte di Hīra, quella città araba sulla riva occidentale dell’Eufrate del Sud, la cui sede vescovile è spesso citata, che fu un grande centro cristiano ancora prima di Nağrān nell’Arabia del Sud: qui si studiava l’arte dello scrivere, molto prima che fosse praticata in generale nel resto della penisola arabica. L’arabo fu infine fondamentale per il senso di unità e di identità degli arabi.
– Non furono prese a prestito da altre lingue solo le parole profane, come per esempio qasr (da latino castrum «accampamento», «cittadella»), bensì anche parole che sono state molto rilevanti per il Corano e per l’uso della lingua: così la parola qalam (dal greco kalamos), che signica «calamo» attraverso il quale Dio ha insegnato agli uomini ciò che essi prima non sapevano.4 Dalle fonti semitico-ebraiche o Cristiane derivano:
sīrat = «il giusto cammino», «guida del cammino» (dal latino strata, «strada lastricata») che si trova in posizione centrale già nelle sure di apertura del Corano;5
sūra = «un pezzo di scrittura»;
rabb = «Signore» (nel Corano riservato solo a Dio);
‘abd = «servo» (nel Corano riservato solo al servizio di Dio);
ar-rahmān = «il Clemente» (due volte programmaticamente nelle sure di apertura, assieme alla parola dal suono simile ar-rahim = il Misericordioso).
Il siriaco qeryqānā (= «lettura» nella liturgia) dimostra un legame con il nome al-Qur’ān (attraverso il verbo affine qara’a «leggere ad alta voce»). Ma ancora più importante: la parola che il Corano conosce per il solo e unico Dio fu utilizzata in arabia già prima di Muhammad per il massimo Dio («il Dio superiore»): Allāh (il padre di Muhammad si chiamava per esempio «servo di Allāh» = ‘abd Allāh) risultò, se è di origine puramente araba, dalla contrazione al-ilān, cioè «il Dio». Secondo altri autori, però, esso potrebbe aver avuto anche un’origine non araba, ma generalmente semitica (reminiscenze dell’ebraico elohim dell’antico sriaco alaha = «il Dio»).6 Ad ogni modo, ancor oggi gli ebrei, i Cristiani e i musulmani in arabo non conoscono alcuna altra parola per Dio che Allāh, e per questo Allāh va semplicemente tradotto con «Dio».
Il Corano, come la Torah in rapporto all’ebraico, è intimamente dipendente, sia per la sua espressione, sia per la sua comprensione, dalla lingua araba (all’epoca della rivelazione l’arabo dei Quraysh). Il testo stesso insiste in molte occasioni su questo punto (si vedano in particolare 16,103 e 26,195): il Corano è stato rivelato in “lingua araba chiara” (lisān ‘arabī mubīn), nel primo caso questa affermazione è sottolineata per liquidare alcuni sospetti relativi all’esistenza di un informatore straniero di Maometto, nel secondo semplicemente per convincere i destinatari del messaggio. Il corollario di queste affermazioni è che chi non conosce l’arabo non ne può cogliere i significati veri e profondi.
Per lungo tempo si è ritenuto che si trattasse esclusivamente di una questione legata al contesto culturale della Rivelazione. Tuttavia, le numerose e frequenti affermazioni degli esegeti riguardanti l’inimitabilità del Corano, essenzialmente legate alla sua lingua, hanno da sempre portato a ritenere che il problema fosse differente. Le attuali scoperte dei ricercatori confermano l’esattezza delle loro affermazioni, dimostrando l’impossibilità di accostarsi alla retorica strutturale del Corano senza il ricorso della lingua araba; proprio allo stesso modo, secondo la medesima prospettiva, senza la conoscenza dell’ebraico non è possibile comprendere la Torah, che è scritta in ebraico ed è legata alle regole di vocazione proprie di questa lingua. Michel Cuypers lo ha dimostrato per il Corano, verificando che è possibile ritrovarvi le regole della retorica semitica, uno sviluppo della retorica biblica.7 Tale retorica è il frutto di più di duecento anni di lavoro di esegesi biblica, ed è stata recentemente sistematizzata da Louis Meynet e da Roland Pouzet, i quali hanno constatato contemporaneamente che le leggi della retorica semitica – riguardanti sia i corpora dell’Oriente antico sia quelli della Bibbia e del Corano – si applicano ugualmente alle tradizioni profetiche. Queste scoperte forniscono una nuova prova del legame di parentela esistente tra Hadīth e corpus coranico, confermando le antiche testimonianze secondo le quali numerose tradizioni profetiche, in fase di recensione, divennero parte del Corano e viceversa. Il corollario di questa situazione è che, così come la lingua ebraica è considerata, secondo le tradizioni ebraiche, la lingua di Dio e degli eletti in paradiso, anche la lingua araba, secondo la tradizione islamica, si trova a essere investita di identiche funzioni, in un quadro simmetrico.
Ciò non accade nel cristianesimo, là dove il testo evangelico può essere trasmesso in tutte le lingue senza dover per questo pensare che il suo messaggio ne venga alterato. Ciò spiega perché esso è stato trasmesso in greco, mentre i contemporanei erano ben consci che Gesù si esprimeva in aramaico e, forse, in latino, pur conoscendo l’ebraico della Torah. Pertanto, alcuni studi recenti dimostrano che anche i Vangeli in greco rispondono alle regole di questa retorica formale.
Il Corano, come la Bibbia, obbedisce ad alcune regole “codificate” molto rigide, per esempio quella delle corrispondenze interne, il cui reperimento dipende direttamente dalla lingua in cui questi testimsono stati messi per iscritto. Ora, secondo la tradizione islamica, il Corano, come il corpus dello Hadīh, sarebbe stato trasmesso in forma puramente orale per un periodo, pur essendo stato, secondo questa stessa tradizione, messo per iscritto molto prima della Sunna. Questo fenomeno della trasmissione orale della Tradizione profetica avrebbe portato, in altri tempi più o meno lunghi, alla messa per iscritto dei testi, secondo un modello non estraneo all’ebraismo, nel quale la Mishnah è a lungo rimasta per i rabbini il Mistorin, trascrizione ebraica del greco mystérion (il “segreto”); e anche a una tradizione esoterica di cui Origene ha dato testimonianza nel suo commentario ai Proverbi di Salomone (1,8): «Ascolta, figlio mio, la morale di tuo padre e non abbandonare mai la legge di tua madre», identificando “tuo padre” con la tradizione scritta e “tua madre” con la tradizione orale. Questo è l’elemento che, nel Medioevo, da questa paradosis formò la qabbalah scritta. In ambito cristiano sono gli apocrifi, come le tradizioni segrete degli apostoli e altri scritti gnostici, trasmessi essenzialmente per via orale, a testimoniare l’esistenza di una dottrina esoterica, del resto legata all’ebraismo, che fece sopravvivere nel cristianesimo un esoterismo ebraico che già esisteva ai tempi degli apostoli, come Guy Stroumsa ha dimostrato. La tradizione profetica si inserì, per molti aspetti, in una linea di continuità con queste strutture.
Attorno a questo insieme di soggetti si sviluppa il tema della lingua araba divina e del miracolo dell’inimitabile Corano, presentato come il primo libro in assoluto in questa lingua araba “pura”. Numerose ricerche recenti invitano a interrogarsi sul carattere storico di questa affermazione, dimostrando che, dall’inizio del VII secolo e forse anche da prima, la scrittura araba si era sviluppata a Hīra, nell’Arabia settentrionale, e che alcuni scritti in questa lingua (verosimilmente traduzioni di testi religiosi) avevano cominciato a circolare attorno alla Siria meridionale e, quindi, in Hijāz. Secondo alcune tradizioni, i nomi dei sette uomini che sapevano scrivere in arabo al momento della penetrazione dell’islam tra i Quraysh sono i seguenti: ‘Umar, ‘Uthmān, Alī, Abū Sufyān e suo figlio Mu’āwiya e così pure Zayd ibn Thābit e Ubayy ibn Ka’b, due futuri segretari di Maometto.
In una prospettiva totalmente differente, Christoph Luxenberg ha proposto una teoria basata sul fatto che, nell’Arabia del VII secolo, la lingua franca e nel contempo lingua letteraria era il siro-aramaico o siriaco. A suo avviso, la lingua del Corano, fondamento essenziale della lingua araba scritta, andrebbe intesa come una “lingua mista arabo-aramaica”. Da qui egli arriva a concludere che, senza prendere in considerazione il siro-aramaico, l’arabo coranico non può essere compreso nel vero senso inteso dal Libro. Egli ritiene che vi siano stati chiaramente dei “fraintendimenti” del testo coranico da parte dei commentatori arabi, che coinvolgono sia il lessico sia la sintassi.8 Per esempio, le urì e gli efebi del paradiso sarebbero un tipo di uva bianca riservata agli ospiti di quel luogo. Oppure il testo della sura 85, così come si presenta in arabo, significherebbe un appello a celebrare l’Ultima Cena oppure a recitare la liturgia del Natale. Se ciò che egli afferma corrispondesse alla realtà, queste “corrispondenze” non potrebbero non rinviare a uno stadio anteriore del testo coranico, che in tal caso sarebbe stato inizialmente composto non in arabo, ma, per la precisione, in siro-aramaico. E’ del tutto concepibile che queste versioni siano esistite e inoltre che siano circolate a lungo nell’impero musulmano.
Per quanto conceme la lingua della Rivelazione il Corano porta un concetto nuovo rispetto all’ebraismo. Si tratta dell’idea, inaugurata e sviluppata dal manicheismo, che la profezia debba essere modulata in una lingua scritta chiaramente. Perciò, come nota Michel Tardieu, «una religione del Libro, com’è il caso delle due profezie di Mani e di Maometto, deve forzatamente possedere una lingua e una scrittura chiare per dire Dio». Secondo André Roman, qui si tratta ovviamente di un semplice argomento d’autorità, almeno per quanto riguarda l’arabo, poiché la chiarezza affermata perentoriamente dal Testo è destinata a indurre ammirazione nel lettore o nell’uditore.
Queste concezioni della lingua coranica come “divina, increata, atemporale” procedono di pari passo con l’idea di “popolo eletto da Dio”. Affermando che Yahveh è l’unico dio dell’universo e che Israele è il suo popolo, gli ebrei avevano in qualche modo accentrato su loro stessi il concetto di “popolo eletto”, un modello universale nel mondo antico: ogni popolo era quello eletto dal dio o dagli dèi tutelari che adorava. Simile posizione accentratrice diviene allora, per quella comunità, condannata alla perfezione oppure esposta alla persecuzione, un privilegio assoluto e una catarsi drammatica al tempo stesso.
Nel Corano, questa pretesa è rimproverata agli ebrei e, inoltre, è precisato a chiare lettere che Dio può eleggere chi vuole, nel caso specifico gli arabi i quali in quest’ottica, hanno I’incarico di riprendere la fiaccola della rivelazione soppiantando gli ebrei (e i cristiani) nel ruolo di popolo eletto. Quando questo processo ebbe luogo, si verifìcò un fenomeno che si era già prodotto anche nel mondo ebraico: le conversioni all’islam non potevano aver luogo senza essere accompagnate da una certa “arabizzazione”.
Tanto quanto le tribù arabe di Medina, che vivevano attorno alle tre tribù ebraiche dei Banū Nadīr, dei Banū Qaynuqā e dei Banū Qurayza, erano convertite all’ebraismo e senza dubbio in parte ebraizzate, ogni entrata di un popolo nell’islam implicava a fortiori una certa arabizzazione. In questo senso, questa religione si presenta come una forza “centripeta”, che attira il resto del mondo verso la propria lingua e, per quanto possibile verso la propria etinicità. Al-Hakīm al-Tirmidhī (m. 318/930) fu testimone della resistenza a questo fenomeno da parte dei persiani, i quali sostenevano di poter praticare il culto e pregare in una lingua completamente diversa dall’arabo.
Tuttavia vi è una differenza tra l’ebraismo – molto poco portato al proselitismo e voltosi a una visione che fa dello stesso popolo eletto una garanzia per la salvezza del mondo – e l’islam: quest’ultimo infatti possiede, insieme a questa forza che tutto convoglia verso di sé, un carattere volto al proselitismo universale similmente al cristianesimo, al quale si aggiunse, sin dall’inizio, l’elemento della conquista armata.
L’islam, dunque, è mosso da una tendenza ineluttabile ad arabizzare il mondo, in un movimento a cerchi concentrici più o meno ampi al centro dei quali si trovano, per gli sciiti, il Profeta e la sua famiglia, e per i suoniti il Profeta e la sua tribù.
L’idea elettiva del popolo arabo nel Corano rinvia direttamente alla stessa idea presso i circoli cristiani, giudeocristiani e anche agnostici dell’epoca. A partire dalla trasposizione di una ben nota tradizione cristiana di esegesi dei testi dell’ebraismo, come quella che troviamo nel quarto e nel quinto libro di Esdra, gli arabi vengono presentati dal Corano come i gentili dai quali giungerà quella salvezza che gli ebrei (e i cristiani) hanno mostrato di non saper meritare. L’idea fondante è che ciò si sia prodotto poiché le due comunità hanno usurpato l’eredità dell’elezione.
Uno degli argomenti utilizzati per comprovare la realtà dell’elezione degli arabi tra i gentili è l’affermazione, sostenuta dalla maggior parte degli autori musulmani, che Ismaele, considerato l’antenato degli arabi, è il figlio della promessa al posto di Isacco, e che lo stesso Ismaele è stato indicato da Dio ad Abramo per il sacrificio. Questa sostituzione di personaggi, assente nel Corano e della quale alcuni commentatori musulmani come Ibn ‘Arabī (m. 628/1240) o Tabarī (m.310/923) non hanno affatto tenuto conto, dev’essersi tuttavia diffusa assai presto, per essere presentata come la giustificazione originaria dell’elezione degli arabi.
Una versione del Targum Neofiti (Add. 27031, su Gn 22, 1), la cui redazione finale risale all’VIII secolo, costituisce una testimonianza storica di questa forma di competizione: «Avvenne, dopo il litigio tra Ismaele e Isacco, che Ismaele disse: “È a me che spetta l’eredità di mio padre poiché io sono il suo primogenito”. Isacco disse: “E a me che spetta questa eredità poiché io sono il figlio di Sarà, sua moglie,” mentre tu, tu sei il figlio della sua serva”». D’altra parte, secondo un racconto riportato da Tabarī, «un ebreo era giunto a far visita a Maometto neonato. Riconoscendo sul suo corpo i segni della profezia, era svenuto, disperato poiché la profezia era passata dai Banū Isrā’īl ai Banū Ismā’īl.
Infine, Abdesselam Cheddadi fornisce alcune testimonianze secondo le quali l’impero islamico nascente avrebbe conosciuto, per una cinquantina d’anni, una doppia cultura greco-araba.
Soltanto a partire dal califfo omayyade ‘Abd al-Malik si assiste a un’accelerazione nell’islamizzazione dei quadri. Il greco rimarrà noto solo ai cristiani. Pare che nessun autore musulmano, neppure tra i filosofi, lo abbia mai conosciuto. Il legame tra islam e arabicità, a quanto sembra, è andato rafforzandosi col passare del tempo. Numerose tradizioni profetiche testimoniano che, durante i primi decenni della conquista, la penisola arabica nella sua interezza era considerata un territorio esclusivamente consacrato all’islam. Alle tribù arabe politeiste sconfitte fu applicata la regola “o islam o morte” e intere popolazioni di città arabe rimaste cristiane, come Najràn, furono deportate oltre la penisola, in particolare verso l’Iraq; lo testimonia Ibn Qayyim al-Jawziyya (m.751/1350) che inoltre segnala l’esistenza nell’Iraq della sua epoca di una località chiamata Najara, luogo di raccolta di quelle popolazioni. Le deportazioni sarebbero state condotte a partire dall’anno20 dell’egira (641), quando il califfo ‘Umar decise di applicare la sentenza pronunciata dal Profeta sul letto di morte: «In Arabia non devono coabitare due religioni».
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1. Cfr. N. Abbott, The Rise of the Nord Arabic Script and its Kur’anic Development, with a full Description of the Kur’an Manuscripts in the Oriental Institute, Chicago 1939, pp. 1-5.
2. Cfr. C. Rabin, art. «’Arabiyya» ( « II.The literary language. Classic Arabic » ), in: EI 2. Del ruolo del poeta cristiano di al-Hira e di altri esempi di un arabismo cristiano (iscrizioni) tratta N. Abbott, The Rise of the Nord Arabic Script, cit., pp. 514: «There are […] evidences which point to preislamic Christian writings» (p. 13).
3. Cfr. R.A. Nicholson, A Literary History of the Arabs (1907), Cambridge 1930 2, pp. XXI s., 137 s.
4. Cfr. sura 96:4 e sura 68 con il titolo «Calamo».
5. Cfr. sura 1:6 e oltre.
6. Cfr. L. Gardet, art. « Allah»,in EI 2.
7. Michel Cuypers, «L’analyse rhétorique: une nouvelle méthode d’interprétation du Coran», in Mélanges de science religieuse, 59 (2002), pp. 31-57.
8. Christoph Luxenberg, Die syro-aramaische Lesar des Koran. Ein Beitrag zur Entschlusselung der Koran-sprache, Schiler, Berlin 2004 (1° ed. 2000).