La vera natura della jihad
In questo post analizzeremo la dottrina della jihad. Talvolta, quando si fa riferimento alla jihad (sforzo, lotta sulla via di Allah), si insiste principalmente sul carattere spirituale di questa «guerra»: si tratterebbe in realtà solo di un «modo di dire» per designare la lotta che il credente deve condurre contro le sue inclinazioni malvagie, contro la sua tendenza all’infedeltà ecc. Insomma, l’antico tema dell’uomo in conflitto con se stesso. Questa tesi (denominata «jihad maggiore») è effettivamente sostenuta da alcune scuole islamiche ed è causa di polemiche interne al mondo musulmano sulla sua fondatezza dottrinale. I termini al-jihad al-akbar (jihad maggiore) e al-jihad al-asghar (jihad minore), infatti, sono attribuiti al Profeta, tuttavia questa attribuzione non ha una base solida nella Sunna (fatti e detti di Maometto), poiché la catena di narratori di che narrano questo argomento è classificata come debole. I più autorevoli giuristi della storia, tra cui Ibn Hajar, Ibn Taymiyyah e Al-Bānī hanno smontato in modo convincente l’autenticità di questa narrativa1. Ad ogni modo la Jihad maggiore non esclude l’obbligo della Jihad minore, e viceversa. Alcuni commentatori affermano che i due tipi di sforzi siano complementari giacché è difficile intraprendere con consapevolezza uno sforzo bellico senza essersi sforzati anche interiormente. Infatti, alcuni Sufi classici, in particolare Abù Hamid al-Ghazàli (d. 505/1111) e ‘Abd al-Karim b. Hawazin al-Qushayri (d. 466/1074), sostengono l’importanza dello sforzo del mujahid (combattente) per avere un’anima pura ed aggiudicarsi così con più facilità il paradiso attraverso il martirio. Lo stesso tema è ripreso da Ibn Qayyim al-Jawziyyah (1350) un giurista hanbalita, che osserva che lottare contro il sé interiore è il primo stadio della jihad prima di partire verso il campo di battaglia e ne garantisce un più facile successo.
La parola Jihad viene usata nel Corano per connotare in maniera generica l’impegno sulla via di Allah, per cui gli unici distinguo che possono essere fatti sono i modi in cui il credente deve applicarsi per favorire l’espansione dell’islam, il che non vuol necessariamente significare la lotta armata ma è un concetto più ampio che include tutti gli sforzi attuati sia nella preparazione che nell’esecuzione della guerra, come il finanziamento. In altre parole, soprattutto in epoca moderna, la Jihad è la lotta sulla via di Allah in diverse forme: logistiche, politiche, propagandistiche, proselitistiche, economiche e ovviamente militari. Ogni credente è chiamato a mettere in pratica il suo Jihad in base alle proprie “specializzazioni” ed ai propri limiti. Nello specifico la Jihad sotto forma di vera e propria lotta armata è chiamata qitāl e, sebbene come specificato sopra, si tratti di uno dei vari modi in cui è possibile combattere sulla via di Allah, è quello principale, il più importante.
In altre parole: è sempre corretto parlare di “combattimento sulla via di Allah” come “jihad” ma non è necessariamente vero il contrario, poiché la jihad può riferirsi anche ad altre azioni pratiche per la difesa e l’espansione dell’Islam, oltre a quelle armate.
Eppure, nonostante il concetto di «jihad maggiore» (spirituale) sia una concezione minoritaria sorta in ambienti sufi, e che l’interpretazione del «jihad minore» (armato) sia quella più ortodossa e tradizionale, in una qualsiasi grande enciclopedia sarà quasi impossibile non leggere frasi tipo: «Nell’VIII e nel IX secolo si assistette all’espansione dell’islam…» oppure: «Questo o quel paese passarono nelle mani dei musulmani…», dove ci si guarda bene dal dire come sì verificò l’espansione dell’islam e come quei paesi «passarono nelle sue mani». Si è indotti a credere che gli eventi si siano prodotti da sé, grazie a un intervento taumaturgico o amichevole. Nei resoconti di questa espansione si parla molto poco della jihad armata, quantunque ogni sua tappa è stata resa possibile proprio da quest’ultima!
Due fattori sostanziali trasformano il jihad armato in qualcosa di totalmente diverso dai conflitti tradizionali, che vengono combattuti, per ambizione o per interesse, in vista di obiettivi circoscritti, e che, costituendo eventi eccezionali rispetto alla situazione «normale» – la pace tra i popoli -, sono destinati a concludersi con il ritorno alla pace. Il primo dei due fattori è il carattere religioso del jihad armato, il secondo il fatto che con esso la guerra diviene un’istituzione (e non più un evento isolato).
Veniamo al primo. In genere jihad si traduce con «guerra santa», espressione che evoca simultaneamente due aspetti: da un lato si tratta di una guerra ispirata da un forte sentimento religioso, dall’altro il suo obiettivo primario non è tanto conquistare dei territori, quanto islamizzarne gli abitanti.
Il jihad è un dovere religioso
Qualcuno argomebterà che ogni religione in fase di espansione rischia di sfociare in una guerra, e che nel corso della storia ci sono stati infìniti casi di guerre religiose: anzi, quest’analogia è divenuta oggi un luogo comune. Ma, anche ammettendo che talora la passione religiosa si esprima così, si tratta pur sempre di una «passione», e soprattutto di un fenomeno rispetto al quale non è difficile dimostrare che non corrisponde al messaggio di fondo di quella religione. Ciò è evidente nel caso del cristianesimo. Nell’islam, invece, il jihad è un obbligo religioso: fa parte delle opere che il credente deve compiere, è la via normale di diffusione della sua fede. Tale concetto è ripetuto decine di volte nel Corano e nella Sunna.
Quindi il musulmano che pratica jihad non agisce in contraddizione con il suo messaggio religioso. Anzi, è così che lo adempie al meglio. Inoltre, se si guarda ai fatti storici dell’Islam si capisce che il jihad è più che altro una guerra di natura decisamente militare ed espansionistica e poco spirituale, che esprime l’accordo tra il «testo fondante» e l’azione pratica dei fedeli. Tuttavia le cose non sono così semplici, perché il jihad non viene combattuto soltanto all’estero, ma può divampare anche all’intero del mondo islamico, e ieri come oggi sono molti i conflitti tra i musulmani.
Il secondo e fondamentale tratto distintivo del jihad è che esso costituisce un’istituzione e non un evento isolato, ossia che appartiene a duplice titolo al normale funzionamento del mondo islamico. In primo luogo, infatti, tale guerra crea delle istituzioni che ne sono la conseguenza. Logicamente tutte le guerre, per il fatto che vi sono dei vincitori e dei vinti, determinano dei cambiamenti istituzionali, ma qui siamo in presenza di un fenomeno ben diverso: i popoli sconfitti cambiano automaticamente status (diventando dhimmi), la sharia tende a essere applicata integralmente, stravolgendo la precedente fisionomia giuridica del paese ecc. Le conquiste non comportano un semplice mutamento di «proprietario» per i territori, ma l’integrazione degli abitanti (a condizione che abbiano ottenuto lo status di dhimmi) in un’ideologia (religiosa) collettiva e obbligatoria in un apparato amministrativo davvero molto perfezionato. In questa prospettiva il jihad è un’istituzione perché contribuisce in modo determinante all’economia del mondo islamico. Il che peraltro implica una concezione originale di tale economia. Ma quello che realmente conta è cogliere che il jihad è di per sé un’istituzione, cioè una componente organica della società musulmana. In quanto dovere religioso, esso rientra nell’organizzazione del culto, come i pellegrinaggi ecc., tuttavia non è questa la sua connotazione essenziale, la quale va invece ricercata nella divisione del mondo insita nel pensiero (religioso) islamico. Il mondo è diviso principalmente in due parti: il dār al-islām e il dār al-harb, ossia il «territorio dell’islam» e il «territorio della guerra». Quindi il mondo esterno non è più diviso in nazioni, popoli, tribù ecc.: tutte le sue partizioni rientrano in blocco nel «territorio della guerra», il che implica che non sono possibili altre relazioni con essi se non di tipo bellico. La Terra appartiene ad Allah, e tutti i suoi abitanti devono riconoscerlo; perché questo avvenga, contro chi non lo accetta, esiste un solo mezzo: la guerra. Quest’ultima quindi non è un fenomeno di natura evenemenziale e accidentale, ma un dato costitutivo del pensiero, dell’organizzazione, della struttura di questo mondo. E con il mondo della guerra non è possibile alcuna pace. Ovviamente a volte si è costretti a fermarsi: esistono circostanze – il Corano le prevede – in cui è meglio non combattere. Ma ciò non cambia niente: la guerra resta un’istituzione, il che significa che, non appena le circostanze lo permettono, essa deve riprendere.
Tra i doveri fondamentali dell’Islam, Ibn Taymiyya collocava al primo posto il jihad (sforzo armato): egli incitava all’eliminazione (quantomeno per conversione forzata) dei non musulmani o dei musulmani non “ortodossi”.
Per concludere, non è affatto vero che la jihad è esclusivamente una guerra difensiva dalle persecuzioni o dalle aggressioni armate. Bisogna capire cosa intendono i musulmani quando parlano di persecuzione e quindi di una loro giusta reazione. Per fare ciò ci affidiamo al Dizionario del Corano, curato da M. A. Amir-Moezzi, I. Zilio-Grandi, edito da Mondadori, il quale a pagina 376 ci dice che:
“Poiché il Corano dichiara che la peggior cosa è mettere alla prova un musulmano nella sua fede per allontanarlo da essa, la guerra è legittimata se è necessaria per far cessare queste prove”
Come vediamo per l’islam la critica rappresenta già una persecuzione da dover combattere attraverso la jihad, per cui anche in questo caso si può affermare che la «guerra santa» è sempre un dovere, dal momento che è impossibile che in una società moderna dove c’è libertà di parola la fede islamica non venga mai messa in discussione.
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1. For details see Ibn Hajar’s Takhrīj al-Kashshāf as annotation on Zamakhashrī’s Kashshāff, 1st ed., vol. 3 (Beirut: Dār al-Turāth al-‘Arabī, 1997), 174-5; Ibn Taymiyyah, Fatāwā, 2nd ed., vol. 11 (Riyād: 1399 AH), 197; al-Bānī, Silsilah al-Ahādīth al-Da’īfah wa al-Mawdū’ah, 1st ed., vol. 5 (Riyād: Maktabah Al-Ma’ārif, 1992), 478-480