LE REALTA’ VISSUTE
Mesopotamia-Iraq (VIII secolo)
Spopolamento
[Al-Mansur] nominò un altro governatore e lo incaricò di contrassegnare e marchiare a fuoco gli uomini nella parte superiore del collo, come fossero schiavi¹. Dice il profeta: “E chiunque non ha ricevuto il marchio della bestia sulla fronte […]»². In questo caso, però, gli uomini non recavano tale segno solo sulla fronte, ma anche su entrambe le mani, sul petto e perfino sulla schiena […]³.
Giunse quindi sul posto il nuovo governatore, e al suo arrivo fece tremare la regione più di tutti coloro che l’avevano preceduto. Infatti aveva avuto ordine di imprimere sulle mani degli abitanti un marchio indelebile, destinato a rimanere nello stesso identico punto per tutta la vita di coloro .
Quando egli si presentò nelle città, tutti gli uomini furono assaliti dal terrore e si diedero alla fuga dinanzi a lui. Le botteghe vennero chiuse, e anche nei mercati cessò ogni forma di acquisto e di vendita, come pure ogni andirivieni nelle vie. Quanti intendevano entrare preferivano fermarsi all’esterno per paura di ciò che poteva accadere loro; d’altro canto, quelli che volevano uscirne erano costretti a rimanere all’interno, poiché le porte delle città erano state chiuse e a nessuno era permesso andarsene.
Dopo che le cose procedettero così per una settimana, gli amministratori del testatico, per le strade non c’era anima viva e che nessuno si recava in città dalle campagne, mandarono a dire al funzionario che era subentrato ad al-‘Abbas nella riscossione della tassa⁴: «La gente fugge dinanzi al marchiatore. e se costui non se ne va sarà impossibile percepire l’imposta».
Il funzionario, udendo queste cose, inviò un messaggio al marchiatore, che partì. Poi, per qualche tempo gli uomini beneficiarono di una tregua sotto quel profilo, perché egli morì durante il viaggio⁵ .
L’esilio
Al-Mansur istituì un altro governatore, con il compito di ricondurre al suo paese e alla casa di suo padre ciascuno di <coloro che si erano dati alla fuga>. Costui, dal canto suo, designò ulteriori governatori e prese a inviarli nelle varie città, ma non necessariamente in quelle di loro competenza: anzi, spesso mandava il reggente di una di esse in un’altra, di modo che a volte i governatori di tutte le città della Mesopotamia si trovavano riuniti nello stesso luogo per affrontare il problema dell’esilio. Da allora non vi fu più scampo in nessun luogo, ma dappertutto regnarono il saccheggio, la malvagità, l’iniquità, l’empietà e ogni sorta di cattiva azione – calunnie, ingiustizie e vendette reciproche – non solo nei confronti degli stranieri, ma anche dei membri della propria famiglia. Il fratello tendeva insidie al fratello, il quale a sua volta lo consegnava ai governatori.
Poi al-Mansur insediò un persiano [un funzionario di Baghdad] a Marda [Mardin], con l’incarico di ricondurvi i fuggitivi e di riscuotere il tributo. In questa città infatti le fughe erano state più massicce che in qualsiasi altra, e l’intera regione era occupata dagli arabi poiché i siriaci [le popolazioni indigene non musulmane] erano fuggiti al loro avanzare.
Quest’uomo si chiamava Khalil ibn Zadan. Egli inflisse molte sofferenze agli arabi, ed è impossibile trovarne l’uguale, prima e dopo di lui, per l’animosità che manifestava contro di loro. Egli spedì vari emiri in tutte le città, e se questi scoprivano che un uomo – oppure suo padre o suo nonno – aveva vissuto a Marda anche quaranta o cinquant’anni prima, lo strappavano alla sua casa, al suo villaggio, alla sua terra, e lo riportavano in quella città. Per quest’uomo il presente non significava nulla, e su di lui la persuasione non aveva alcun effetto, così che ben pochi riuscivano a sfuggirgli. In tal modo egli radunò in quella regione una moltitudine tanto grande che non vi era luogo, né villaggio, né casa che non fosse pieno e non traboccasse di abitanti. Quindi costrinse gli arabi a trasferirsi da una regione all’altra e si impadronì di tutto ciò che possedevano; poi riempì le loro terre e le loro case di siriaci, e fece seminare il loro grano da questi ultimi. Inoltre catturò i più ricchi e inflisse loro senza alcuna pietà tormenti e supplizi di ogni sorta. Generalmente convocava uno di loro, gli faceva radere i capelli e la barba e indossare una corona di pasta, dopodiché lo esponeva al sole. Quindi gli versava dell’olio sul capo in modo che gli colasse a poco a poco sugli occhi, e così la sua testa era preda di atroci dolori. Poi gli faceva applicare alle cosce, alle dita, alle braccia catene strette e inserire delle «noci» di ferro negli occhi⁶. Queste erano le torture che egli infliggeva senza alcuna pietà agli arabi, molti dei quali morirono in seguito a esse. Gli altri fuggirono e presero a trasferirsi da un luogo all’altro […]⁷.
Faremo conoscere anche i mali che si abbatterono sugli arabi, poiché nessuno sfuggì alle calamità che si verificarono in quel periodo a causa dei nostri numerosi peccati […]⁸.
In verità, in questo caso il malvagio fu punito dal malvagio […]. Gli arabi infatti si erano insinuati, come il tarlo nel legno, tra gli sventurati contadini del luogo, prendendo le loro terre, le loro case, le loro sementi e il loro bestiame, tanto che ormai mancava poco che si appropriassero anche di loro e dei loro figli in qualità di schiavi: infatti, all’interno delle loro stesse proprietà, questi contadini lavoravano già come schiavi per gli arabi […].
Ovunque non si sentiva parlare d’altro che di percosse e di crudeli supplizi; per giunta, in alcuni casi gli arabi portarono alla rovina i contadini che vivevano nelle loro terre: poiché infatti i governatori li caricavano di imposte, essi li costringevano a pagarle con loro fino a quando non li avevano rovinati e non si erano impadroniti di tutto ciò che possedevano. Allora essi fuggivano dalle loro abitazioni. Ma quello fu solo l’inizio della calamità e il principio della devastazione: infatti nel paese vi erano ancora risorse sufficienti, perciò i contadini non erano ancora ridotti totalmente alla fame; tuttavia quei governatori perversi non erano mai sazi […]⁹.
Quando i capi di distretto e i governatori entravano in un villaggio e mettevano le mani sul prefetto del luogo e gli ordinavano di consegnare loro tutto il denaro che aveva riscosso. Quindi, aperto il sacco, prendevano tutto quello che volevano, dicendo: «Questa è la parte dell’emiro», Percuotevano senza pietà anche le persone rispettabili e i vecchi con i capelli bianchi. Da quel momento, ovunque non si sentivano altro che grida strazianti.
Egli [il governatore] dava spesso manforte ai governatori incaricati di cercare i fuggitivi, rendendosi complice delle loro furfanterie. Li inviava agli estremi confini della provincia, incaricandoli di un triplice o quadruplice testatico, e faceva di tutto per infliggere al popolo di Dio [i giacobiti] ogni sorta di atroce tormento.
Gli stessi notabili della città gli davano una mano, dal momento che egli prometteva loro grandi cose. Ovunque esigeva il tributo a titolo personale, e non per il Tesoro reale.
Sulla regione si abbatterono quindi molteplici mali: l’esilio, gli esattori che reclamavano una somma dovuta da un uomo mortovent’anni prima e riscuotevano più volte, senza alcuna misericordia, la stessa imposta; e poi ancora le tasse esagerate e altre calamità, che è impossibile elencare una a una perché sono troppo numerose¹⁰.
Il testatico o «jizya»
Quando scoprivano che [un contadino] non poteva dar loro nulla perché non possedeva nulla, i governatori, che erano giudici iniqui, gli dicevano: «Esci sulla pubblica piazza, cerca con lo sguardo qualcuno che sai essere proprietario di qualcosa e di’: “Ho affidato i miei beni a quest’uomo”, oppure: “Egli è mio debitore”». E se il malcapitato, oppresso a destra e a manca, per dritto e per traverso, di sopra e di sotto, era indotto dal timor di Dio a non rendere falsa testimonianza contro quell’uomo, al tempo stesso era impossibilitato dall’astenersene a causa dei supplizi inflittigli da quegli empi giudici. Allora prendeva Dio a testimone del fatto che era obbligato ad agire in quel modo, e che non era certo di sua volontà che era arrivato a rendere una testimonianza ingiusta contro persone che non aveva mai visto né conosciuto […]. Essi [i contadini] erano stati abbandonati a se stessi poiché i loro capi erano impegnati a passare di malizia in malizia, a correre da un’iniquità all’ altra. Spogliavano e depredavano i poveri presenti tra loro come fossero agnelli finiti fra le grinfie dei lupi, infliggendo loro ogni sorta di mali e vendendone i beni, grazie a cui essi riuscivano appena a pagare il testatico. Per non parlare delle altre calamità che i malcapitati ebbero a subire di coloro che ricercavano gli esuli, di quelli che portavano via il bestiame, e la decima, il çauphi¹¹ I l e il ta’dil¹² ¹³.
Le torture
In primo luogo fabbricavano dei pezzi di legno larghi quattro dita e piatti da ambo i lati, poi facevano stendere un uomo faccia a terra e si posizionavano uno sulla sua testa e uno sui suoi piedi, mentre un terzo lo percuoteva senza pietà sulle cosce, come se battesse una pelle […]. In secondo luogo si procuravano due bastoni, li legavano a un’estremità con delle catene e li applicavano alle cosce di un individuo, uno dall’alto e l’altro dal basso, poi un uomo robusto si sistemava all’altra estremità, fino a quando le cosce venivano spappolate […].
In terzo luogo li appendevano per le braccia finché le loro membra non si slogavano, e appendevano perfino le donne per le mammelle, fino a quando queste non si strappavano.
Oppure li spogliavano dei vestiti, li caricavano di pietre e, così conciati, li immergevano nella neve e nel ghiaccio, versando loro addosso, per giunta, dell’acqua fredda, fino a che non restavano immobili e piombavano faccia a terra.
A volte invece prendevano cinque pezzi di legno, li foravano tutti a un’estremità e in quei fori introducevano le dita di qualcuno; poi tiravano l’altra estremità fino a che le due parti non si riunivano e le dita non si spezzavano. Prendevano anche due assi, che legavano tra loro da una parte, e ne sistemavano una sotto i reni e l’altra sotto l’addome, dopodiché un uomo si metteva in piedi dall’ altra parte fino a quando le costole si spezzavano e le viscere erano sul punto di uscire. Fabbricavano apposite catene per le braccia e per ogni singolo membro. Affilavano dei bastoncini di canna e li infilavano sotto le unghie. Costruivano delle piccole «sfere», che introducevano nella cavità oculare fino a quando gli occhi non erano in procinto di uscire. Li obbligavano a restare a piedi nudi e senza niente addosso sotto la neve e l’acqua, fino a che non diventavano pallidi come morti. Roteavano grossi bastoni e li colpivano senza pietà mentre giacevano a terra. Per loro le fruste erano inutili e il carcere superfluo […]¹⁴.
Non aspettavano nemmeno di aver finito di infliggere una tortura per passare a un’altra […]. Infatti il loro intento era far convergere simultaneamente sui loro corpi ogni genere di supplizio. Li gettavano nudi nella neve; raccoglievano grosse pietre e gliele premevano sulla schiena finché scoppiavano loro le viscere e si spezzavano loro le costole e la spina dorsale. Riscaldavano la stanza da bagno sino a renderla ardente come il fuoco, poi la riempivano di fumo e ve li rinchiudevano nudi; quindi facevano entrare dei gatti e li buttavano in mezzo a loro, cosicché,quando gli animali si scottavano, si gettavano su di essi e li dilaniavano con le unghie. Oppure li rinchiudevano in camere buie, in cui non filtrava mai un raggio di luce […].
Questi erano tutti i tormenti e i supplizi che infliggevano alla povera gente all’epoca della riscossione dell’imposta.
Se questa piaga non fosse stata universale – se cioè non avesse riguardato indistintamente cristiani e pagani, ebrei e samaritani, adoratori del fuoco e del sole, magi e musulmani, sabei e manichei – i vari dèi e dee non si sarebbero forse compiaciuti di quest’amara persecuzione? Ma la faccenda non aveva niente a che vedere con la fede, né riguardava i seguaci delle fedi orientali in misura maggiore degli adepti delle religioni occidentali. Il nome del del Sud [l’islamismo] fu annientato come quello del del Nord [il cristianesimo]. Se i cristiani fossero stati i soli bersagli di questa persecuzione, a buon diritto potrei esaltare la superiorità dei martiri del nostro tempo rispetto a tutti quelli che li hanno preceduti: infatti la morte rapida di spada è più dolce delle torture prolungate all’infinito […]. Un amaro calice e un boccone d’ira erano imbanditi indistintamente per tutti gli uomini, grandi o piccoli, ricchi o poveri che fossero, come dice il profeta. Il ricco assaporava continuamente l’amarezza poiché gli prendevano ingiustamente ciò che aveva e gli frantumavano le ossa a furia di percosse, il povero perché esigevano da lui ciò che non possedeva, e in più non poteva chiedere prestiti e nessuno lo faceva lavorare nel suo campo o nella sua vigna […].
Nessuno pensi, fratelli miei, che io abbia esagerato in questo racconto, anzi, voglio che si sappia che tutti i calami¹⁵ e tutta la carta dell’universo non basterebbero a descrivere i mali che hanno colpito gli uomini del nostro tempo. Nessuno ci accusi peraltro di averli voluti ridimensionare: infatti non siamo in grado di ricostruirne tutti gli aspetti, e queste calamità non si sono certo abbattute su una sola città […]¹⁶. Essi praticavano l’iniquità senza pudore. La regione era turbata e sconvolta, e gli uomini fuggivano di villaggio in villaggio, di luogo in luogo […]. Nessuno – né vescovo né prete né giudice – era esente da peccato: si andava dalla calunnia alla rapina, dalla delazione all’ingiuria, dalla maledizione all’odio, dalle mormorazioni al brigantaggio, dall’adulterio alla profanazione di tombe. Ogni seme del demonio fu seminato a quel tempo in tutti gli uomini. Ciascuno, secondo il suo grado e il suo potere ,si ingegnava a fare il male […]¹⁷.
Di questi fatti non siamo venuti a conoscenza per sentito dire, ma li abbiamo visti con i nostri occhi […].
Se qualcuno possedeva qualcosa e voleva fuggire, veniva imprigionato e incatenato fino a che non era stato spogliato di tutto e non gli restava nulla. Quando ormai non aveva più niente gli era concesso andarsene, ma finché possedeva qualcosa no. Se prendeva la fuga, il viaggio stesso lo privava dei suoi beni. Se per caso nascondeva qualcosa sottoterra, il luogo stesso sembrava denunciarlo: «Ecco le ricchezze di quel tale: venitele a prendere», e se affidava i suoi beni a qualcuno ci pensava costui a depredarlo, appropriandosene al posto dei ladri e dei briganti […]¹⁸.
I cristiani tolsero dalle loro case tutti gli utensili di ferro o di legno e li vendettero; fecero lo stesso con le porte, nell’ attesa di tempi migliori; infine, staccarono dalle loro abitazioni perfino i correntini¹⁹ e vendettero anche quelli. Poi abbandonarono i miseri resti delle loro dimore e se ne andarono spogliati di tutto, errando di villaggio in villaggio, di luogo in luogo […]²⁰.
Non dobbiamo dire solo che «sono scomparse offerta e libagione dalla casa del Signore»²¹, ma anche che i libri liturgici sono stati portati via dalle chiese e venduti, che tutto il resto è bruciato negli incendi e i vasi sacri²² sono andati distrutti. Le vigne sono state devastate, la vendemmia ha pianto²³. I campi hanno prodotto spine e rovi; gli alberi di fico si sono seccati, gli olivi sono stati devastati; i melograni, le palme da dattero, i meli e tutti gli altri alberi sono morti. Per questo la gioia è scomparsa dal cuore degli uomini, i lavoratori sono fuggiti e le Ioro case sono divenute la dimora delle bestie selvagge.
Pur riscuotendo già il testatico e molte altre tasse, [gli ausiliari dei governatori] ne esigevano ripetutamente il pagamento. Essi vendevano tutti i beni degli uomini e ne intascavano . E non si limitavano a esigere l’importo dovuto una volta sola, ma più e più volte. non conoscevano inizio né fine. Essi piombavano in un villaggio dicendo: «La cifra complessiva dovuta da questo villaggio è di tot: restano tot migliaia >>.E riscuotevano di nuovo l’imposta. Poi, una volta che con la violenza avevano ottenuto quella somma, tornavano ancora a pretenderla. Nessuno osava aprir bocca in quanto tutti temevano di essere ulteriormente tassati dal giudice. [Gli ausiliari] catturavano i notabili e li vessavano senza pietà, tanto da provocare la morte e la distruzione di molti di loro.
I contadini stessi davano manforte ai malfattori. Assalivano gli uomini, sottraendo loro e poi vendendo tutto ciò che possedevano. Oppure, mentendo, dicevano loro: «Tu possiedi una vigna, un giardino, un bosco, un campo di olivi nel nostro paese», o: «Tu ti sei fatto garante per qualcuno», o ancora: «Tu sei soggetto alla capitazione nel nostro territorio, e sono tanti anni che non paghi il tributo. Versalo subito perché siamo in ristrettezze».
Con questi e altri simili pretesti i contadini fermavano gli uomini poveri e li depredavano. Il giudice stesso insegnava loro ad agire così, rendendosi loro complice e non chiedendo loro conto di ciò che facevano. Essi piombavano su un passante, lo catturavano e citavano contro di lui falsi testimoni : «Costui è tenuto come noi a pagare il tributo in questa regione». E se lui replicava sotto giuramento: «Non ho mai visto questi uomini, e neppure loro mi hanno mai visto», essi ripetevano: «Costui è tenuto a pagare il nostro tributo». Tra essi infatti si trovava sempre qualcuno disposto a testimoniare contro di lui. Così vendevano il suo bestiame, i suoi beni e tutto ciò che possedeva. Essi si aggiravano per le città come cani che fiutino a terra le tracce dei loro padroni, degli animali o delle greggi. Si informavano su chi aveva qualcosa da parte – frumento, ferro o qualsiasi altra merce e lo catturavano. Bisognava vederli muoversi in gruppo nelle città, adocchiando un uomo e dicendo: «Questo è uno dei nostri»²⁴. E chi sfuggiva a uno di loro era preso da altri, che lo conducevano da altri ancora. Se per caso aveva nascosto qualche cosa, o sottoterra o a casa di qualcuno, il luogo stesso lo gridava a gran voce, come una donna incinta in preda alle doglie del parto. Fu in queste e analoghe condizioni che gli uomini trascorsero i santi giorni della Quaresima²⁵.
L’esodo dei contadini
Razin²⁶ giunse ad Arzun²⁷ e a Maipherkat²⁸, e quando venne a conoscenza delle pratiche brigantesche dei governatori delle città li condannò ad atroci torture e a violenti supplizi, a tal punto che furono rosi dai vermi e morirono. Li gettò in catene, spezzando loro mani e piedi, e li spogliò di tutto ciò di cui si erano appropriati.
Dio li abbandonò ai tormenti inflitti loro da quell’uomo crudele e scellerato, e tutte le sozzure che avevano commesso ricaddero su di loro. Si diceva infatti che fossero soliti catturare i giovani imberbi incontrati per strada per poi insudiciarli. Inoltre gli scribi e i cambiavalute, che pure erano cristiani, nella loro empietà facevano prendere e condurre loro delle fanciulle da profanare, sia di origine popolare che appartenenti alle famiglie dei notabili […]. Ho riportato alcuni di questi fatti perché i potenti, leggendoli, si mettano una mano sulla coscienza e non agiscano più secondo il loro capriccio o contrariamente all’onestà, e poi perché sappiano che esiste una legge anche per colui che fa la legge, e comprendano che un principe, se si comporta in modo sregolato, perde immediatamente e rapidamente quel titolo in cui consiste tutta la sua gloria, e acquista in cambio la nomea di tiranno. La quale, connessa com’è a ogni sorta di comportamento malsano, è l’inizio della demenza […].
Vi fu grande afflizione nelle regioni del Sud [basso Iraq, Siria], a causa della siccità di cui abbiamo parlato in precedenza. Tutta la parte meridionale e orientale della provincia fu sconvolta dalla crudeltà e dalle persecuzioni di Musa ibn Mus’ab. Perciò i loro abitanti si riversarono in Mesopotamia, invadendo i villaggi e le città, le case e i campi, a tal punto che non si poteva né circolare né sostare in alcun luogo a causa della loro presenza. Ciò aggravò la miseria che già opprimeva i poveri e gli operai mesopotamici, poiché nessuno dava loro un salario o era disposto ad assumere uno solo di essi. E se qualcuno offriva loro di lavorare in cambio del solo vitto, erano in moltissimi ad accettare, anche quando non dava loro pane a sufficienza. Uomini e donne, bambini e anziani si aggiravano senza sosta attorno alle case per tutto il giorno, e, quando scorgevano una porta aperta, vi si precipitavano in trenta o quaranta alla volta. All’inizio tutti facevano loro l’elemosina, ma quando questo stuolo di poveri, di stranieri e di affamati crebbe oltre misura, smisero di aiutarli. Infatti gli abitanti temevano di ritrovarsi essi stessi nell’indigenza e di diventare più disgraziati di costoro, tanto più che il governatore, con la frode e il furto, aveva sottratto tutto il grano ai proprietari e lo aveva fatto vendere […]. Gli abitanti delle diverse regioni della Mesopotamia, spinti dalla carestia, si riunirono e si diressero in massa verso le città. Tutti i loro beni erano già stati venduti, e nessuno era disposto a far loro un prestito. Mangiarono carne e latticini per tutta la Quaresima: infatti, per effetto dei bassi costi del bestiame da macello, ovunque andassero ricevevano carne a volontà. In alcuni luoghi la carestia colpì con maggior crudeltà le popolazioni indigene a causa dell’ enorme numero di stranieri presenti tra loro, tanto che si ridussero a mangiare i cadaveri dei defunti. Gli stranieri [quelli di un altro villaggio o un’altra città] che, per non morire, avevano lasciato i loro paesi colpiti dalla carestia, ovunque giungessero erano preceduti, accompagnati e seguiti, dalla spada e dalla peste […]²⁹·
Quando, a causa dell’oppressione del governatore, della penuria di viveri, della carestia, della peste e delle molteplici malattie abbattutesi sugli uomini, le loro sventure si furono moltiplicate, essi abbandonarono le loro case e andarono a stabilirsi in montagna e nelle valli. Lì morivano come le mosche – di fame, di peste, di freddo – ed erano divorati dagli uccelli e dagli animali, senza che vi fosse nessuno a dar loro sepoltura.
La peste infierì maggiormente nelle regioni meridionali, ma devastò l’intera provincia, tanto che corti [case]³⁰ in cui prima vivevano 40 o 50 persone rimasero senza un solo abitante. A Mossul ogni giorno venivano portate fuori dalla città oltre 1000 bare. Nella regione di Nisiba, molti villaggi un tempo importanti furono completamente annientati.
Tutti i notabili della regione morirono. La peste provocò soprattutto la morte dei sacerdoti delle città e delle campagne […]. I campi, i villaggi, le grandi «corti» delle città rimasero deserti³¹.
Pseudo-Dionigi di Tell Mahre
Egitto
Secondo viaggio in Egitto di Dionigi di Tell Mahre (832)
Nel mese di sebat il re [Ma’mun] entrò in Egitto, e il patriarca Mar Dionysius³² andò con lui per la seconda volta, come riferisce egli stesso dicendo: «Quando giungemmo nella città di Farma [Pelusa], la prima dell’Egitto, il re mi fece convocare da Fadhl, responsabile degli affari reali. Appena entrai da lui, mi tese la mano secondo le usanze e mi disse: “Patriarca, tu sei venuto a conoscenza della rivolta dei cristiani egiziani noti come biamaye [stanziati nel Basso Egitto]. A loro non è bastata la prima devastazione che hanno subito. E se non fosse che sono misericordioso e che non medito il massacro, non invierei da loro un uomo come te. Ma prendi i vescovi che sono con te e alcuni vescovi egiziani, e recati da loro; tratta con loro, a condizione che consegnino i ribelli e che vengano con l’esercito in un luogo a me gradito, in cui concederò loro di abitare; altrimenti li farò perire di spada”. E, dopo che gli ebbi parlato a lungo della [possibilità di accettare la] loro sottomissione e di lasciarli nel loro paese, egli rispose: “No! Escano o saranno messi a morte”. E subito ordinò che il patriarca dell’Egitto venisse con me. Ci mettemmo in viaggio per via fluviale, e otto giorni dopo fummo raggiunti dal patriarca Giuseppe, intenzionato a entrare con noi [nella regione]. Subito scendemmo nel Basrut, il distretto in cui vivono i biamaye, e li trovammo riuniti e al sicuro in un’isola interamente circondata da acqua, giunchi e canneti. Allora i loro capi uscirono e ci vennero incontro. Quando li rimproverammo per la rivolta e i massacri dei quali si erano resi responsabili, essi ne attribuirono la colpa a chi li governava, e quando appresero di dover lasciare il loro paese furono costernati, e ci pregarono di inviare [dei messaggeri] dal re, per chiedergli il permesso di recarsi da lui e raccontargli tutto ciò che avevano subito. Dissero che Abu al-Wazìr li obbligava a pagare un tributo veramente esorbitante; che li imprigionava nei [parole mancanti], e che, quando le mogli venivano a trovarli per portare loro del cibo, i suoi servitori le rapivano e le violentavano; che aveva ucciso molti di loro e che aveva intenzione di eliminarli tutti, perché non andassero a lamentarsi di lui presso il re. Era lui che aveva costretto [il generale] Aphsin a inviare i suoi soldati nei loro villaggi per indurli a presentarsi in quell’accampamento, al fine di uccidere gli uomini.
Ma era accaduto che i soldati avevano incontrato una donna e l’avevano rapita per violentarla. Quando lei si era messa a urlare e a gridare, quelli che si trovavano nell’isola, udendo la sua voce, erano usciti precipitosamente e avevano attaccato battaglia, infliggendo e subendo perdite: per questo motivo la pace era stata infranta, ed era cessata del tutto […]³³.
Quando arrivammo dal generale Aphsin e lo mettemmo a conoscenza del fatto che i ribelli erano irremovibili, egli ci rispose: «Ormai la pace è stata infranta. Andate a dire al re che nessuna pace è possibile». E diedero inizio alla guerra, appiccando il fuoco ai villaggi, alle vigne, agli orti e alle chiese di tutto il distretto. I biamaye, dal canto loro, sbucando dall’acqua trafiggevano i persiani³⁴ a colpi di giavellotto o di lancia. Essi portarono con sé i loro vicini, li istigarono contro di essi [i persiani], e insieme si misero a uccidere e a farsi uccidere.
Quando arrivammo dal re, io gli raccontai tutto, rivelando gli l’offesa egiziani, l’iniquità di Abu al-Wazir – che si era opposto alla pace – e il fatto che gli abitanti della regione si lamentavano di lui e di altre due persone […]³⁵.
Il re Ma’muun scese nella terra dei biamaye e fece cessare le devastazioni che regnavano presso di loro: convocò infatti i loro capi e ordinò loro di lasciare la regione. Poi i biamaye gli descrissero la durezza dei prefetti per governarli, e gli spiegarono che, se fossero usciti dalla loro terra, non avrebbero più avuto mezzi di sussistenza perché traevano il proprio sostentamento dal papiro e dalla pesca. In seguito accettarono il suo ordine: salparono alla volta di Antiochia e di Il furono inviati a Baghdad. Erano in tutto 3000. La maggior parte di essi morì durante il viaggio. Quelli che erano stati fatti prigionieri in guerra – circa 500 uomini – furono ceduti come schiavi ai tayyayee, che li deportarono a Damasco e li vendettero. E, cosa che non era mai accaduta nell’impero dei tayyayee, vendettero anche quanti erano sooggetti al giogo del testatico. Ma con l’aiuto di Dio noi incoraggiammo i fedeli, e tutti furono riscattati e liberati. Tuttavia essi non tornarono nel loro paese poiché vi regnava una grave carestia, e molti di essi si stabilirono in Siria per avere pane a sazietà.
Il re ordinò ai prefetti di non trattare con durezza gli egiziani, altrimenti li avrebbe messi a morte. Poi condonò la metà dell’imposta a tutto l’Egitto.
Ma quando il re fu partito, sugli egiziani si abbatterono molteplici calamità. I persiani entravano infatti nei villaggi, incatenavano a gruppi di dieci o di venti quanti opponevano loro resistenza, e li inviavano ad al- Fustat³⁶ senza accertare se fossero colpevoli o innocenti. Così molti di loro morivano senza aver commesso alcuna colpa. Un giorno alcuni di essi, mentre venivano condotti in catene al massacro, chiesero all’uomo che li scortava di accettare un dono e di liberarli. Ma, dal momento che glieli avevano affidati in un numero ben determinato, egli rispose loro:
“Aspettate che incontriamo degli altri per strada, e li incatenerò al vostro posto”. Incontrarono tre uomini: un sacerdote e due tayyaye, uno dei quali era l’imam di una moschea; ebbene, costoro furono presi al posto degli altri, i quali vennero rilasciati in cambio di doni. E poiché ai [nuovi] oppressi non era concesso parlare, furono massacrati. Così le strade erano piene di uomini trucidati ingiustamente. A quell’epoca in terra d’Egitto regnavano la spada e la prigionia, la carestia e la peste. [Alla morte di Ma’mun, gli succedette al-Mu’tasimì], il quale inviò le sue truppe a combattere gli zotaye³⁷, che abitavano all’interno della regione lacustre formata dalla piena dell’Eufrate e del Tigri [basso Iraq], poiché questo popolo era perennemente in rivolta ed era fonte di fastidi per il re. Essi infatti percuotevano, depredavano e massacravano i mercanti che si recavano a Baghdad da Bassora, dall’India e dalla Cina. Ma le truppe non poterono far nulla contro di loro, perché essi combattevano sulle barche. Allora il re inviò ad attaccarli gli egiziani che aveva fatto prigionieri e deportato dal Basrut, i quali erano abituati all’acqua e nuotavano come pesci; senza essere visti, essi colpivano all’improvviso gli zotaye con le lance e li trafiggevano. Così gli zotaye furono sconfitti dai biamauye; vennero catturati con le loro mogli e i loro figli, e marcirono e perirono in carcere a Baghdad. Quando il re vide le brillanti gesta degli egiziani nella battaglia contro gli zotaye, iniziò ad apprezzarli, tanto che ne prese alcuni al suo servizio per farli lavorare nei giardini e nei parchi, altri invece perché si dedicassero a tessere le tipiche vesti di lino ricamate dell’Egitto, mentre ai restanti concesse di tornare nel loro paese. Quando giunsero al mare, presero posto sulle navi per scendere in Egitto, ma la giustizia non permise loro di arrivare a stabilirvisi: infatti si levò una tempesta ed essi furono tutti sommersi dalle acque»³⁸.
Sotto il califfona Harun al-WiIthiq (842-847)
A. Cirro [a nord di Aleppo] un altro prefetto, passando di villaggio in villaggio, incontrò un cammelliere i cui cammelli stavano urinando per strada, e gli disse: «Perché permetti ai tuoi cammelli di pisciare sulla strada in cui passeranno i musulmani? Per farli scivolare e cadere?», E lo fece incarcerare con i suoi cammelli fino a che l’uomo non gli ebbe fatto . Un altro giorno, vide un uomo che era caduto dal suo asino e si era fracassato la testa. Avendo appreso da lui che l’asino si era spaventato e per questo lo aveva gettato a terra, ordinò di ucciderlo, con il pretesto che era un animale pauroso e un potenziale assassino del suo padrone. Quando il pover’uomo lesse la sentenza del prefetto, gli diede due dinari e in tal modo salvò il . Quando qualcuno si lamentava di un altro, egli li imprigionava entrambi fino a che non li aveva rovinati. E così gli uomini erano impossibilitati a sporgere querela e costretti con la forza a osservare il comandamento che recita: «Non renderai male per male».
I prefetti impedivano loro di vendemmiare al momento opportuno se prima non avevano ricevuto un dinaro ogni mille ceppi di vite; analogamente, proibivano loro di spremere i grappoli ai torchi finché non avessero ottenuto da loro tutto il denaro che volevano; poi depositavano il vino nelle proprie botti fino a che non avessero prelevato <un’imposta> dai venditori e dai compratori.
Riscuotevano di questo tipo anche per le strade e alle porte delle città, nonché all’inizio della mietitura, della macinatura, della disinfestazione dei bachi da seta³⁹ e della raccolta delle olive⁴⁰.
Michele il Siro
LE OPINIONI DEI GIURISTI
L’abbigliamento e l’aspetto esteriore dei tributari
È necessario inoltre che tu [l’autore consiglia il califfo Harun al-Rashiid] apponga un sigillo sulla loro nuca al momento di riscuotere la jizya, fino a che non siano stati passati in rassegna tutti, salvo poi rompere questi sigilli a loro richiesta, come fece ‘Uthman ibn Hunayf⁴¹. Tu sei riuscito a imporre che nessuno di loro sia lasciato libero di imitare un musulmano nel modo di vestire, nella cavalcatura e nell’aspetto esteriore; che tutti si cingano la vita con la cintura detta zunnar, simile a uno spago grossolano che ognuno deve annodare al centro del corpo; che i loro zucchetti siano trapuntati; che le loro selle abbiano, al posto del pomo, un pezzo di legno simile a una melagrana, che le loro scarpe siano provviste di doppie stringhe; che essi evitino di trovarsi faccia a faccia con i musulmani; che le loro donne non usino selle imbottite; che non costruiscano nuove sinagoghe o chiese in città, e si limitino a utilizzare come luoghi di culto quelli esistenti all’epoca del trattato che li ha trasformati in tributari, e che sono stati lasciati loro senza essere demoliti; lo stesso valga per le pire funerarie⁴², È loro consentito risiedere nei principali centri urbani o commerciali ed esercitarvi l’attività di compravendita, ma senza vendere vino o carne di maiale, e senza esibire croci nelle città principali; i loro copricapi però dovranno essere lunghi e grossolani. Impartisci dunque ai tuoi delegati l’ordine di imporre ai tributari il rispetto di queste norme esteriori, proprio come fece Omar ibn al-Khattab, «al fine – soteneva – di distinguerli dai musulmani già a prima vista».
Leggo in ‘Abd al-Rahman ibn Thabit ibn Thawban, il quale a sua volta cita il padre, che un giorno il califfo Omar ibn ‘Abd al-‘Aziz[717- 720] scrisse a uno dei suoi governatori, dopo i [saluti] preliminari:
«Non permettere a nessuno di esibire la croce, ma rompila e distruggila; che nessun ebreo o cristiano faccia uso della sella, ma adoperi il busto, e che nessuna donna ebrea o cristiana usi la sella imbottita, ma soltanto il basto; a tale proposito emana dei divieti formali e impedisci ai tuoi collaboratori di violarli. Che nessun cristiano osi indossare Il qaba⁴³, né abiti di seta⁴⁴, né turbante! Mi è stato riferito infatti che molti cristiani soggetti alla tua giurisdizione sono tornati a usare i turbanti, non portano più la cintura e si lasciano crescere liberamente i capelli invece di tagliarli. Per Allah! Se nel tuo entourage si è verificato ciò lo si deve alla tua debolezza, alla tua impotenza, alle adulazioni a cui hai dato ascolto; evidentemente, se questa gente ha ripreso le sue antiche usanze, è perché ha capito di che pasta sei fatto. Vigila sull’applicazione di tutto ciò che io ho proibito e impedisci a quanti già Io hanno fatto di contravvenire ancora a tali norme. Salute a te»⁴⁵.
Abu Yusuf Ya’qub
Imposta pro capite e imposta fondiaria
Il testatico e il kharaj sono due fardelli dei quali Allah ha gravato i politeisti a vantaggio dei fedeli; essi presentano tre aspetti comuni e tre divergenti, da cui discendono le molteplici applicazioni possibili di tali regole. I tre aspetti in comune sono i seguenti:
a) l’una e l’altra imposta vengono riscosse dai politeisti per rimarcare la loro condizione di inferiorità e di umiliazione;
b) entrambe alimentano il fay’, e il loro ricavato viene assegnato agli aventi diritto al fay’;
c) il loro pagamento è esigibile alla fine dell’anno, ma non prima di tale scadenza.
I tre aspetti per i quali essi si differenziano sono i seguenti:
a) il testatico è fondato su un testo, mentre il kharaj; trae origine da valutazioni personali «ijtihad»⁴⁶;
b) nel caso del primo, il tasso più basso è stabilito dalla Legge mentre il più alto deriva da valutazioni personali; nel caso del secondo entrambi i tassi derivano da valutazioni personali;
c) il primo, dovuto finché il contribuente è un infedele, cessa con la conversione, mentre il secondo è esigibile tanto dagli infedeli quanto da chi professa l’islamismo.
Il termine jizya (testatico), che designa un’imposta applicabile individualmente a ogni suddito dhimmi, è riconducibile al concetto di jeza <compenso, rimunerazione>: infatti si tratta sia di un compenso che egli è tenuto a versare in ragione del suo status di infedele – non a caso gli viene estorta con disprezzo – sia di una rimunerazione nei nostri confronti per il fatto che gli abbiamo risparmiato la vita, non a caso gli viene chiesta con dolcezza. Tale imposta si fonda sui versetti sacri: «Combattete quelli che non credono né in Dio né nel Giorno ultimo, quelli che non dichiarano illecito ciò che Dio e il suo Messaggero hanno dichiarato illecito, e quelli fra le Genti del Libro che non rispettano come religione la Verità, sino a che non versino la tassa [con le loro proprie mani]⁴⁷ dopo essersi umiliati» […]⁴⁸.
Le parole «con le loro stesse mani» possono alludere o alla condizione di ricchezza e di opulenza dei dhimmi, o alla loro convinzione che abbiamo la forza e il potere necessari per esigere da loro quest’imposta.
Il termine «umilmente» rinvia invece o alloro stato di mortificazione e umiliazione, o al fatto che sono soggetti alle prescrizioni islamiche. Chiunque detiene l’autorità deve imporre la jizya ai seguaci delle religioni rivelate che passano sotto la nostra protezione, così che essi posano dimorare in territorio islamico; dal versamento di essa scaturiscono due diritti: quello di essere lasciati in pace e quello di essere protetti. In virtù del primo hanno la sicurezza, in virtù del secondo trovano riparo all’ombra del nostro braccio […].
Gli arabi, , sono soggetti come tutti gli altri al testatico; Abu Hanìfa⁴⁹ però ha asserito: «lo non lo esigo dagli arabi perché non voglio che siano umiliati». Neppure il rinnegato è tenuto a versarlo, e neanche il materialista o l’idolatra; nondimeno, Abu Hanìfa ne prevedeva il pagamento per quest’ultimo, ma solo se non era arabo.
I seguaci delle religioni rivelate sono gli ebrei e i cristiani, i cui rispettivi libri sacri sono la Torah e la Bibbia […]⁵⁰.
Chi vuole passare da una setta ebraica a una cristiana non è libero di farlo: secondo la più attendibile delle due scuole di pensiero in materia, egli è tenuto a farsi musulmano […]⁵¹.
Quando la pace è stata concessa [agli infedeli] in cambio dell’obbligo di ospitalità nei confronti dei musulmani di passaggio, tale obbligo è limitato a un periodo di tre giorni, e non può essere ulteriormente prolungato. Furono questi i termini dell’accordo stipulato da Omar con i cristiani di Siria, ai quali impose di ospitare per tre giorni tutti i musulmani che passavano dalle loro parti provvedendo a nutrirli secondo le loro usanze – ma senza l’obbligo di sacrificare una pecora o una gallina -, nonché di offrire un riparo notturno ai loro animali, ma senza fornire loro l’orzo; peraltro assoggettò a tale obbligo soltanto gli abitanti delle campagne, escludendone quelli delle città […]⁵².
Nel contratto legato al testatico sono previste due clausole, una delle quali è di rigore mentre l’altra è altamente raccomandata. La prima comprende sei articoli:
a) [i dhimmi] non devono né attaccare, né snaturare il Libro sacro;
b) non devono accusare il Profeta di menzogna o nominarlo con disprezzo;
c) non devono parlare della religione islamica per criticarla o contestarla;
d) non devono abbordare una donna musulmana al fine di instaurare con lei relazioni illecite oppure di sposarla;
e) non devono allontanare dalla fede alcun musulmano, né nuocere alla sua persona o ai suoi beni;
f) non devono dare aiuto ai nemici [dei musulmani] né accogliere alcuna delle loro spie.
Questi sono divieti di carattere rigorosamente obbligatorio, ai quali i dhimmi devono conformarsi senza che occorra stipularli esplicitamente; se ciò viene fatto, è unicamente per renderli pienamente consapevoli di essi, per corroborare la solennità dell’impegno che viene loro imposto e per sottolineare adeguatamente che d’ora in poi il compimento di uno di questi atti comporterà la rottura del patto che è stato loro accordato.
La seconda clausola, che è solo raccomandabile, verte anch’essa su sei punti:
a) l’obbligo di modificare il loro aspetto esteriore indossando il segno distintivo o ghiyar e la speciale cintura zunnar;
b) il divieto di costruire edifici più alti di quelli dei musulmani: i loro dovranno essere di altezza uguale, se non inferiore;
c) il divieto di offendere le orecchie musulmane con il suono delle loro campane (nakus), la lettura dei loro libri e le loro pretese in relazione a Uzayr⁵³ e al Messia;
d) quello di non abbandonarsi pubblicamente al consumo di vino, nonché all’esibizione di croci e di maiali;
c) l’obbligo di procedere all’inumazione dei loro defunti in segreto, senza fare sfoggio di pianti né di lamenti;
f) il divieto di utilizzare come cavalcature i cavalli, siano essi di razza o di sangue misto, mentre è loro consentito servirsi di muli e di asini. Queste sei prescrizioni raccomandabili non sono necessariamente incluse nel contratto di vassallaggio, a meno che esse non siano state espressamente specificate, poiché in questo caso acquistano carattere strettamente obbligatorio. Il fatto di trasgredirle qualora siano state stipulate non implica la rottura del patto, ma gli infedeli sono costretti con la forza a rispettarle e puniti per averle violate. Non incorrono invece in alcuna pena quando non è stato specificato nulla al riguardo […]⁵⁴.
Quando gli alleati e i tributari si uniscono per combattere i musulmani, diventano subito loro nemici e ognuno di essi può essere messo a morte; per coloro che non hanno preso le armi, si tiene conto del fatto che abbiano consentito o meno alle ostilità.
Il rifiuto da parte dei tributari di pagare il testatico costituisce una violazione del trattato che è stato loro concesso. Secondo Abu Hanifa, questo rifiuto non costituisce una violazione se non nel caso in cui essi si spostino nel «territorio di guerra» [dar al-harb]. L’ammontare dell’imposta viene prelevato con la forza come tutte le altre somme dovute.
I dhimmi non possono erigere nuove sinagoghe o chiese nel territorio (dar al-islam) qualora ciò accada, bisogna demolirle senza alcun indennizzo; possono ricostruire le vecchie sinagoghe o chiese cadute in rovina.
La violazione del contratto da parte dei tributari non autorizza a ucciderli, a spogliarli dei loro beni e a ridurre in prigionia le loro mogli e i loro figli se non quando ci combattono; altrimenti vanno espulsi dal territorio musulmano, ma rispettandone l’incolumità, finché non abbiano raggiunto un luogo sicuro nel più vicino paese politeista. Se non partono di loro spontanea volontà, verranno espulsi con la forza⁵⁵.
Al-Mawardì
«Umiliazione e derisione devono toccare in sorte a coloro che disobbediscono alla mia parola> I dhimmi sono i più refrattari al Suo comando e i più ostili alla Sua parola: di conseguenza essi meritano di essere umiliati discriminandoli dai musulmani, che Allah ha esaltato in virtù della loro sottomissione a Lui e al Suo Profeta, innalzandoli al di sopra di coloro che Gli disobbediscono. Questi ultimi, invece, Egli li ha umiliati, mortificati e resi abominevoli, di modo che il marchio del disprezzo sia ben visibile su di loro, e affinché possano essere distinti grazie alloro aspetto.
Che a costoro debba essere imposto un segno distintivo [ghiyar] emerge chiaramente dall’affermazione del Profeta: «Chi sceglie di assomigliare [ai dhimmi] sarà considerato uno di loro» […]⁵⁶. È obbligatorio costringere l’infedele ad assomigliare a quelli del suo popolo, affinché i musulmani possano individuarlo […]. Se uno di essi [un ebreo o un cristiano] saluta uno di noi [un musulmano], dobbiamo rispondergli: «Anche su di te»⁵⁷.Se è questa la consuetudine nell’islam, allora è necessario imporre ai dhimmi un abbigliamento speciale affinché possano essere riconosciuti e le consuetudini islamiche possano essere correttamente osservate, e affinché il musulmano possa scoprire chi l’ha salutato. Si tratta di un musulmano, che merita l’augurio di pace, o di un dhimmi che non lo merita? […]. Inoltre, l’abbigliamento distintivo risponde ad altri scopi: grazie a esso il musulmano può scoprire che chi lo indossa è una persona che non deve incontrare né far sedere in un’assemblea di musulmani, a cui non deve baciare la mano né di fronte a cui deve alzarsi in piedi, a cui non deve né rivolgersi con gli appellativi di «fratello» o di «signore», né augurare il successo o l’onore come si è soliti fare con un musulmano; né elargire l’elemosina rituale o ricorrere a lui come testimone, sia di accusa che di difesa, né vendere una schiava islamica o affidare libri religiosi o giuridici concernenti l’islam […]⁵⁸·
È severamente proibito chiamare un dhimmi «signore» o «maestro», come recita l’hadith [ … ]. Quanto agli appellativi «gloria dello Stato», «pilastro dello Stato» ecc., anche questi non sono leciti. Se uno di essi si fregia di tali titoli, il musulmano non deve attribuirglieli. Se si tratta di un cristiano, lo apostroferà dicendo: «Ehi tu, cristiano!», o «Ehi tu, croce!»: se invece è un ebreo gli dirà: «Ehi tu, giudeo!» […]⁵⁹. L’abbandono o la sostituzione di queste leggi istituite da Omar con altre leggi, anche se esse sono accettate dalle autorità religiose, costituisce un atto di negligenza da parte di colui a cui Allah ha intimato [il rispetto del] la verità e l’annientamento dei Suoi nemici. Infatti, se si permette ai dhimmi di manifestare la loro empietà e di uscire dal loro stato di inferiorità, la religione di Allah, il Suo Profeta, il Suo Libro e i musulmani vengono di fatto diffamati […], e le spiegazioni da noi fornite confermano che il jihad è obbligatorio fino a che la parola di Allah non regnerà sovrana, e tutti professeranno la sua religione, e tale religione prevarrà su tutte le altre, e i dhimmi pagheranno il tributo nell’umiliazione'”.
Ibn Qayyim al-Jawziyya
Malik⁶¹ sostiene che a un musulmano non si addice insegnare né l’alfabeto arabo né qualsiasi altra cosa a un cristiano; egli non deve neanche mandare suo figlio in una scuola straniera [non musulmana], perché vi apprenda una scrittura diversa da quella araba […].
Quando un dhimmi starnutisce, non bisogna dirgli: «Che Dio ti benedica!», ma: «Che Dio ti conduca sulla retta via!», oppure: «Che egli migliori la tua condizione!» […].
Se un dhimmi ha avuto relazioni peccaminose con una musulmana e lei era consenziente, esistono opinioni contrastanti circa il fatto che ciò comporti la rottura del patto; se invece l’ha presa con la forza, non vedo possibile alcuna divergenza riguardo alla violazione del trattato e l i questo individuo. È così che la maggior parte dei dhimmi egiziani ha infranto il patto: poiché hanno offeso i musulmani e intrattenuto relazioni peccaminose con le loro mogli, consenzienti o no. Del resto, solo AIlah è l’onnisciente.
Se il dhimmi si rifiuta di pagare la jizya vi è rottura del patto, ed è lecito impadronirsi di tutto ciò che possiede.
Se ha proferito ingiurie contro il profeta, sarà messo a morte. Ma – ci si chiederà – può sfuggire a tale sorte abbracciando l’islamismo?
A tale proposito esistono due scuole di pensiero; tuttavia sembrerebbe che, ogni volta che un dhimmi viene condannato a morte per aver violato il patto, possa sfuggire alla pena capitale convertendosi all’islam.
Se egli ha acquistato uno schiavo musulmano o una copia del Corano, sarà punito.
A Malik fu posto il seguente quesito relativo ai testi sacri contenenti il Pentateuco e il Vangelo: «Pensi sia lecito vendere questi libri agli ebrei e ai cristiani?». Ed egli rispose: «Ascoltatemi: in primo luogo siamo sicuri che questi testi siano veramente il Pentateuco e il Vangelo? In ogni caso, ritengo che a noi non sia consentito né venderli, né accettare denaro in cambio di essi».
Alcuni ‘ulama sostengono altresì che, siccome l’islamismo ha abrogato tutte le religioni precedenti, non è lecito vendere questi libri agli uomini che credono ai loro precetti e non riconoscono il Corano – che li ha sostituiti tutti -, anche se fossero davvero il Pentateuco e il Vangelo. Ma neanche questo è ammissibile, poiché non vi è alcun modo di pervenire alla conoscenza dei testi autentici: infatti, come dice Allah stesso, «Essi hanno alterato il Pentateuco e il Vangelo»⁶².
CHIESE:secondo la tradizione, si narra che il Profeta abbia pronunciato queste parole: «Non si edificheranno chiese nei paesi musulmani,né si ripareranno quelle che cadono in rovina». Al riguardo si cita anche questo suo hadith: «Niente chiese nell’islam».
Omar ibn al-Khattab ordinò di demolire tutte le chiese che non esistessero già prima dell’islamismo, e proibì di costruirne di nuove; inoltre estabilì che ai cristiani fosse proibito esporre croci fuori dalle chiese, e che, se qualcuno ne portava una, gli venisse spaccata sulla testa.
‘Urwa ibn Naj ordinò di distruggere tutte le chiese di Sanaa [Yemen].
Questa è la legge sancita dagli ‘ulamaa dell’islam.
Omar ibn ‘Abd al-‘Aziz rincarò ulteriormente la dose, ordinando di non lasciare in piedi in alcun luogo chiese o cappelle, vecchie o nuove che fossero. È consuetudine – afferma Hasan al-Basri⁶³ – distruggere le chiese antiche e recenti in tutti i paesi.
Omar ibn ‘Abd al-‘Aziz emanò anche una serie di ordinanze che proibivano ai cristiani di alzare la voce quando cantavano nelle loro chiese, poiché questi sono i canti più sgraditi all’ Altissimo; inoltre vietò loro di riparare le parti dei loro luoghi di culto che cadevano in rovina. Su quest’ultimo punto esistono due opinioni: se ne rintonacano l’esterno – dice al-Istakhari⁶⁴ – bisogna impedirglielo, ma se si limitano a ripararne l’interno, ossia la parte visibile a loro, ciò può essere tollerato; comunque, solo Allah è l’onnisciente.
TESTATICO: gli ‘ulama nutrono opinioni discordanti riguardo alla jizya: secondo alcuni essa è stata fissata una volta per tutte sulla base della cifra stabilita da Omar ibn al-Khattab, e non è possibile né aumentarla né diminuirla; secondo altri invece la determinazione del suo importo è affidata allo zelo dell’imam, il quale è il giudice più competente, su questa materia; infine, secondo una terza opinione, non si può apportare alcuna riduzione all’aliquota introdotta dall’imam Ormar ibn al-Khattab, ma è possibile elevarla […].
La jizya stabilita da Omar era di 48 dirham per i ricchi, 24 per gli esponenti della classe media e 12 per i poveri, ma è opportuno che l’imam manifesti il suo zelo per la religione innalzandone l’importo; certo, ai tempi in cui viviamo sarebbe più che giusto prelevare annualmente 1000 dinari da questo o quel dhimmi, i quali peraltro, viste le ricchezze che hanno accumulato grazie ai musulmani, non sarebbero affatto impossibilitati a pagare tale somma. In ogni caso l’imam, una volta accertate le azioni disoneste che hanno commesso per accumulare questi tesori, deve confiscarglieli senza esitazione; qualora invece non sia del tutto certo della loro slealtà, deve venire a patti con loro, prendendo la metà di ciò che possiedono. Beninteso, agirà in questo modo solo nel caso in cui fossero ricchi già prima di entrare nell’amministrazione pubblica wilaya⁶⁵; ma, se all’epoca erano poveri e bisognosi, allora l’imam dovrà appropriarsi interamente dei loro beni. Tra l’altro, è così che si comportò Omar ibn al-Khattab nei confronti dei notai egiziani, basandosi sul fatto che tali individui si erano probabilmente arricchiti nell’esercizio delle funzioni pubbliche; eppure non era stato possibile appurare la loro colpevolezza.
Sia lode al Dio altissimo, al Dio unico! Possano la benedizione e la pace accompagnare Maometto, la sua famiglia e i suoi Compagni!⁶⁶.
Ibn al-Naqqash
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¹ Al-Mansur, fratello del califfo Abu al-‘Abbas al-Saffah (750-754) e in seguito califfo egli stesso (754-775), fu governatore della Mesopotamia, di Mossul, dell’Azerbaijan e dell’Armenia. Secondo lo storico armeno Ghevond (VIII secolo) egli impose a tutti i dhimmi di portare un sigillo di piombo sulla nuca (Histoire des guerres et des conquêtes des arabes en Arménie, trad. di Garabed V.Chahnazarian, Meyrueis, Paris 1856, p. 124).
² Il passo è liberamente tratto da Apocalisse 20,4, che recita testualmente: “Poi vidi alcuni troni e a quelli che vi.si sedettero fu dato il potere di giudicare. Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano». La traduzione [di questo, come di altri passi biblici] è tratta da Conferenza Episcopale Italiana (a cura di), La Sacra Bibbia, Edizioni CEI, Roma 2003. Vedi anche: http://www.vatican.va/arcrnve/ITA001l/_INDEX.HTM# fonte [N.d.T.].
³ Jean-Baptiste Chabot (a cura di), Chronique de Denys de Tell Mahré, quatrième partie, Bibliothèque de l’École des Hautes Études, Bouillon, Paris 1895, p.104.
⁴ Al-‘Abbas, ex governatore della Jazira. fu sostituito da Musa ibn Mus’ ab.
⁵ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 105.
⁶ Sono le piccole «sfere» di ferro menzionate poco più avanti, nel paragrafo sulle torture [N.d.T.].
⁷ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 105-106.
⁸ Ivi, p. 128
⁹ Ivi, p. 130.
¹⁰ Ivi, p. 134.
¹¹ Tassa destinata al demanio dello Stato.
¹² Censimento quantitativo e qualitativo della terra finalizzato a determinare l’entità dell’imposta.
¹³ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 135-136.
¹⁴ La pratica della tortura è confermata dagli storici armeni. Secondo Ghevond, Histoire des guerres et des conquêtes des arabes en Arménie cit., p. 131: «Dappertutto venivano innalzati forche, torchi e patiboli; dappertutto non si vedevano che continui, spaventosi supplizi». Le persone dei ceti inferiori erano «esposte a diversi tipi di tormento: alcuni subivano la flagellazìone per non essere riusciti a pagare imposte esorbitanti; altri erano appesi alle forche, o schiacciati sotto i torchi; altri ancora erano spogliati degli indumenti e gettati nei laghi ghiacciati nel pieno di un inverno particolarmente rigido, mentre dei soldati strategicamente disposti sulla riva impedivano loro di toccare terra e li facevano morire orribilmente» (Ghevond, Ivi, p. 132). Molti si rifugiavano nelle grotte, altri ancora si suicidavano.
¹⁵ Bastoncini di canna di cui ci serviva per scrivere.
¹⁶ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 142-144.
¹⁷ Ivi, p. 166.
¹⁸ Ivi, p. 167.
¹⁹ Travi in legno che sostengono i listelli cui sono appoggiate le tegole [N.d.T.].
²⁰ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 168.
²¹ Gìoele 1,9 [N.d.T.].
²² I «vasi sacri» sono i diversi recipienti di cui si fa uso nella liturgia: il calice, la patena, la pisside o ciborio, la teca, l’ostensorio, le ampolline per l’acqua e il vino, le ampolle per gli oli santi. Cfr. http://www.celebrare.it/quindicinale/019.htm [N.d.T.].
²³ Libera citazione da Isaia 24,7: «Lugubre è il mosto, la vigna languisce, gemono tutti» [N.d.T.].
²⁴ Un membro della nostra comunità [N.d.T.].
²⁵ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 169-170.
²⁶ Personaggio incaricato di controllare i governatori, la cui crudeltà, secondo il nostro autore, tormentò tutti gli abitanti.
²⁷ Antica capitale dell’Arzanene, situata nel Kurdistan, a nord del Tigri.
²⁸ L’antica Martiropoli. nel Sud dell’ Armenia.
²⁹ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., pp. 175-177.
³⁰ L’uso del termine «corte» come sinonimo di «casa» deriva dalla tipica struttura della casa-cortile mesopotamica (presente anche in Egitto e nell’area mediterranea, raggiunse la perfezione architettonica nell’antica Roma), caratterizzata da uno schema risalente ai sumeri: un cortile-giardino centrale interno, protetto dall’esposizione diretta al sole, su cui si affacciavano le stanze, mentre le mura esterne erano chiuse dal lato della strada, perché la vita privata fosse al sicuro da sguardi indiscreti e dai rumori della città [N.d.T.].
³¹ Chronique de Denys de Tell Mahré cit., p. 186.
³² Nelle Chiese cristiane orientali, in particolare in quella siriaca, Mar o Mor (lett. «mio Signore»), è un titolo onorifico conferito a vescovi e santi. Le varianti Maran o Moran « ³³ Micheleil Siro, Chronique de Michelle Syrien, patriarche jacobite d’Antioche (1166-1199), trad. di [ean-Baptiste Chabot, 4 volI., Leroux, Paris 1899-19241 (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), vol. 3, pp. 76-78.
³⁴ Per «persiani» si intendono qui i funzionari di Baghdad presenti nelle province. Cfr. supra, nel paragrafo «Mesopotamia-Iraq», il sottopararafo «L’esilio» [N.d.T.].
³⁵ Micheleil Siro, Chronique de Michelle Syrien.
³⁶ Località nei pressi di Il Cairo.
³⁷ Gli zotaye o zanj erano schiavi neri originari dell’ Africa che coltivavano i territori degli arabi nel basso Iraq. Essi si ribellarono all’inizio del IX secolo.
³⁸ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., vol. 3, pp. 82-84.
³⁹ Il termine écheniller, lett. «disinfestare dai bruchi», allude alla fase della bachicoltura in cui, per evitare che i bruchi, ultimata la metamorfosi e trasformatisi in falene, escano dai bozzoli tagliando i fili di seta e rendendoli inutilizzabili, gli allevatori gettano i bozzoli in acqua bollente uccidendoli [N.d.T.].
⁴⁰ Micheleil Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., vol. 3, pp. 106-107.
⁴¹ Uno dei Compagni del Profeta, al servizio del califfo Omar ibn al-Khattab [N.d.T.].
⁴² Allusione al culto funerario degli zoroastriani [N.d.T.].
⁴³ La qaba è una tunica o una veste con le maniche larghe, di vari colori, aperta davanti e indossata sopra la camicia. È il classico indumento dei ricchi, e si distingue dalla aba o abaya, una sorta di mantello di lana, nero o a strisce bianche e marroni, tipico dei poveri. http://www.persian.packhum.org/persian/index.jsp?serv=pf&f=&file=50001010&ct=17 [N.d.T.].
⁴⁴ L’originale ha filoselle, che corrisponde all’italiano «filosello» o «bavella», ossia il filo di seta continuo ricavato dal bozzolo del baco (di qui il termi- ne, che è una variante medievale di «filugello»). Il filosello è anche il tes- suto fatto con tale filo [N.d.T.].
⁴⁵ Abu Yusuf Ya’qub, Le livre de l’impôt foncier (Kitab al-Kharadj), trad. di Edmond Fagnan, Geuthner, Paris 1921,pp. 195-196
⁴⁶ Termine giuridico indicante uno sforzo personale d’interpretazione di un dogma o di una legge.
⁴⁷ L’espressione [con le loro stesse mani] è stata posta tra parentesi poiché non figura nella traduzione francese utilizzata altrove dall’autrice (cfr. supra, ad es. cap. 3, «Caratteristiche dei territori conquistati», «Jizya», e «Documenti», cap. l, «La teoria del jihad», «Strategie di combattimento») [N.d.T.].
⁴⁸ Abn al-Hasan ‘Alr ibn Muhammad ibn Habib al-Mawardì, Al-ahkam al-sultaniyya (Gli statuti governativi), trad. di Edmond Fagnan, A. [ourdan, AI- !~ri 1915,pp. 299-300.
⁴⁹ Si tratta di al-Nu’man ibn Thabìt ibn Zuta Abu Hanìfa, teologo, giurista (fondatore della scuola di giurisprudenza hanafita o hanifita.
⁵⁰ AI-Mawardr, Al-ahkam al-sultaniyya (Gli statuti governativi) cit., pp. 301-302.
⁵¹ Ivi, p. 302.
⁵² lvi, pp. 304-305.
⁵³ Secondo i musulmani questo personaggio, nominato in Corano IX,30, sarebbe ritenuto dagli ebrei il figlio di Dio [Uzayr è stato identificato con il profeta biblico Esdra, [N.d.T.]
⁵⁴ Al-Mawardr, Al-ahkam al-sultaniyya (Gli statuti governativi) cit., pp. 305-306.
⁵⁵ Ivi, pp. 308-309.
⁵⁶ La citazione è liberamente tratta da Corano V,51: «Credenti, non prendeli come alleati quegli ebrei e cristiani che si sono alleati gli uni agli altri. Chi di voi li prende come alleati diventa uno di loro» [N.d.T.].
⁵⁷ Questa formula significa: «Che le tue maledizioni ricadano su di te».
⁵⁸ Muhammad ibn Abu Bakr ibn Qayyim al-Jawziyya, Sharh al-shurat al-‘Umiriyya (Commento al Patto di Omar), a cura di S. Salih, Damasco 1961, p.81.
⁵⁹ Ivi, p. 115.
⁶⁰ Ivi pp. 236-237.
⁶¹ Malik ibn Anas, giurista morto nel 795, fondatore della scuola malikita.
⁶² Muhammad ibn ‘Ali ibn al-Naqqash, Fetoua [1357-1358] relatif à la condition des zimmis et particulièrement des chrétiens en pays musulmans, depuis l’établissement de l’islamisme, jusqu’au milieu du VIIIème siècle de l’hégire, trad. di Francois-Alphonse Belin, «JA» ,4a serie, n. 18,1851, pp. 510-512.
⁶³ Si tratta di Abu Sa’id ibn Abi al-Hasan Yasar al-Basri (642-728),figura di spicco del primo secolo dell’islam, famoso per la sua devozione e il suo ascetismo.
⁶⁴ È Abu Saìd al-Hasan ibn Ahmad al-Istakhari (898-940), giurista shafi’ita residente a Baghdad, autore di numerose opere di giurisprudenza islamica.
⁶⁵ Il termine wilaya (turco vilayet) designa un certo livello di divisione amministrativa, corrispondente, a seconda dei casi, ai nostri «stato», «regione», «provincia» o «distretto» [N.d.T.].
⁶⁶ lbn al-Naqqash, Fetoua [1357-1358] relatif à la condition des zimmis cit., pp. 513-515.