Incursione musulmana contro Roma (846 d.C.)
Già nell’830 pirati saraceni avevano devastato le aree abitate della campagna romana, giungendo fino alle basiliche di San Pietro e San Paolo e penetrando fino a Subiaco dove venne distrutto l’abitato e il Cenobio. Analogamente a questi eventi, nella notte tra il 24 e il 25 agosto dell’846 i pirati saraceni, dopo aver attaccato e saccheggiato Centumcellae, Civitavecchia, Porto e Ostia, si spinsero fino a Roma.
Questo è l’antefatto di una guerra che fu il jihad, con una sua lunga e terribile contabilità fatta di centinaia di attacchi, raids e scorrerie, sul mare come all’interno che interessano non solo il Sud Italia, ma tutta la costa e le isole tirreniche, dalla Calabria al Lazio fino alla Lunigiana, a Genova, alla Sardegna, alla Corsica. E l’Adriatico: la Puglia, con tutte le sue città, Ancona, le foci del Po, Grado, la Dalmazia. E i saraceni penetrano anche nell’interno, dal nord della Puglia fino agli Abruzzi e al ducato di Spoleto. Con incursioni che raggiungono il Piemonte, la Val di Susa, Asti. Ingaggiando numerose battaglie di terra e di mare, importanti o meno, tra cui Ostia e Milazzo.
«Nel mese di agosto 846 – scrive Prudenzio di Troyes – i saraceni e i mauri investirono Roma devastando la basilica del beato Pietro principe degli Apostoli, asportando insieme all’altare che sovrastava la sua tomba tutti gli ornamenti e i tesori. Alcuni duchi dell’imperatore Lotario furono empiamente tagliati a pezzi». Da Harun ibn Yahya sappiamo quale fosse la provenienza di questi saraceni: sono spagnoli. Mentre il Liber pontificalis riporta in che modo fosse composta la flotta e quanti gli armati: sbarca ad Ostia un gruppo di sessantatré navi, da cui scendono cinquecento cavalieri. Vediamo ora come si svolsero i fatti: i saraceni, dapprincipio, risalgono il Tevere senza trovare alcuna resistenza. Assaltano le sedi dei forestieri, le scholae dei pellegrini sassoni, frisoni e franchi. Saccheggiano tutta la zona fuori dalle mura aureliane. Profanano le basiliche di San Pietro e San Paolo. Le locuste, si disse, sono arrivate a distruggere le messi. L’unica reazione arriva dai contadini romani che attaccano il contingente saraceno, che scappa con diverse perdite. Il gruppo di predoni, scompaginato, una volta lasciata la città si riunisce di nuovo. Per altre razzie. Si avvia verso il Beneventano, lungo l’Appia. Arriva a Fondi. A settembre comincia ad assediare Gaeta. Da Napoli e da Amalfi partono dei rinforzi, guidati dal console Cesario. Un contingente dell’imperatore franco corre in aiuto di Roma e cade in un agguato. È uno sfacelo. I saraceni si dirigono verso Montecassino. Per strada bruciano tutto quello che trovano, chiese, cappelle, abitati. Li blocca solo un violento nubifragio. Si avvicina l’inverno. Per i razziatori è il momento di rientrare alle loro basi. Il blocco di Gaeta si spegne. Scatta, giocoforza, la tregua.
L’evento che colpisce Roma lascia una profonda ferita, i cui echi si proiettano ancora nel XII secolo, nella Destruction de Rome, sorta di proemio alla Chanson de Fierbras. Appare quasi inconcepibile che non sia esistito alcun meccanismo di difesa da parte romana. Il gruppo saraceno non è enorme. Basta un nubifragio a fermarlo: un po’ poco. A ogni buon conto, è la capacità di sorpresa, l’effetto psicologico che li rende imbattibili. D’altro canto, i latini non possono che opporre la resistenza della popolazione locale, di contadini che si ingegnano guerrieri nell’assenza totale di ogni altra forza militare. I cavalieri franchi, poi, appaiono, in questa occasione, impreparati a confrontarsi con forze così rapide come quelle saracene. Si devono aspettare i napoletani e gli amalfitani, gli unici, in quel momento, ad avere una potenza navale e armata sufficiente da contrapporre. Ma c’è incertezza sulla loro fedeltà. Fatto sta che i musulmani possono stazionare, praticamente indisturbati, per quattro mesi, tra Roma e il basso Lazio, mettendo a sacco la periferia della città, alle strette Gaeta, riducendo in macerie tutta la zona tra Fondi e Montecassino. Dopo il massacro, in ogni modo, c’è da ricostruire, ricomporre una resistenza, per far fronte a un domani che si presenta oscuro. Nell’assenza del potere imperiale, il ruolo di promotore viene preso da papa Leone, il quale intuisce che i saraceni possono ritornare presto. Allora bisogna coordinare le forze, riassestare le difese della città papale, operare con una forte e persuasiva opera di propaganda che rianimi le popolazioni avvilite, riattizzare lo zelo religioso e, in ultimo, ricorrere all’aiuto bizantino e delle città marittime del Tirreno. Intanto un’onda di commozione fa il giro d’Europa. Roma è caduta. Roma sta cadendo. Ma aiuti non arrivano. Non possono arrivare. Il destino è nelle mani dei signori locali. Specialmente dei napoletani. A Roma, la vita riprende a fatica: bisogna ricostruire un tessuto connettivo e impedire che i luoghi santi divengano nuovo oggetto di razzia. Nasce così la città Leonina. Mentre, nell’849, le città tirreniche riportano la vittoria navale di Ostia: un simbolo più che un momento di svolta nelle vicende meridionali del jihad. Da essa deriva almeno una certezza: che il nemico si può battere sul suo stesso terreno.Amedeo Feniello, “Sotto il segno del leone”, pag. 83, 84, 85.